Questo è il decimo anniversario della mia ultima camminata per Brick Lane. Nessuno lo festeggerà con celebrazioni e fuochi d’artificio, né qui né tanto meno lassù. Al netto del fatto che la ricorrenza non sia di nessun interesse, a Brick Lane, da dieci anni questa parte, c’è poco da festeggiare; il mio addio è ovviamente una coincidenza. Quella via colorata, arteria della vecchia Londra tornata in voga grazie agli hipster dell’attigua zona di Shoreditch e alle boutique di abbigliamento di design, è conosciuta dagli anni Settanta come Curry Street, la via del curry. Al culmine del suo splendore, una decina di anni fa, le curry house affacciate su Brick Lane erano una settantina, in molti punti una dopo l’altra. Settanta ristoranti dediti alla cucina indiana, ma soprattutto ai curry, “perché ai britannici piace il cibo con molta salsa”. 

Un po’ ovunque

Uno dei graffiti nel quartiere di Shoreditch a Londra / Foto Ap

Perché sia chiaro, il curry non è una spezia. Curry è una parola ombrello che definisce un’infinità di piatti, dalla Thailandia allo Sri Lanka, accomunati dalla presenza di spezie e di una salsa più o meno liquida che ingloba la parte solida, che sia carne, pesce, formaggio o verdura.

L’affermazione di questa parola, anche nei paesi d’origine dove i piatti avevano nomi diversi, è merito (o colpa) proprio dei britannici, che hanno iniziato ad adoperarla (traslitterando dal tamil kari) per qualsiasi piatto potesse contenere un po’ di quella salsa aromatizzata dalla miscela di erbe e spezie che si facevano spedire dalla colonia. Curry powder, cioè polvere-per fare un-curry.

L’amore per questi aromi pungenti ha conosciuto alti e bassi, ma alla fine si è imposto nella maniera più tombale che possa esistere, ovvero con l’invenzione di un nuovo piatto, e con la sua veloce affermazione al rango di ‘vero piatto nazionale britannico’: il chicken tikka masala.

Questione di cittadinanza

«Il mio fruttivendolo persiano mi ha detto di aver passato il test perché sapeva che la risposta alla domanda sul “vero piatto nazionale britannico” era “chicken tikka masala”, mentre un suo amico, che ha risposto “fish and chips”, ha fallito». L’aneddoto è di Sejal Sukhadwala, food writer londinese di origine indiana, e poco importa che la conversazione che riporta sia avvenuta o meno.

Quella domanda fa realmente parte del questionario che chiunque richieda la cittadinanza britannica deve compilare con successo (e forse ora sappiamo da quale modello Matteo Salvini attinga le sue brillanti idee sui requisiti per lo ius scholae), e la risposta è quella giusta.

Era dello stesso parere il segretario agli Esteri Robin Cook quando, nel 2001, asserì in un celebre discorso pubblico che «il Chicken Tikka Masala è ora un vero piatto nazionale britannico. Non solo perché è il (piatto, ndr) più popolare, ma anche perché è una perfetta rappresentazione del modo in cui la Gran Bretagna assorbe e adatta ogni influenza esterna. Il Chicken tikka è un piatto indiano. La salsa Masala è stata aggiunta per soddisfare il desiderio di cibo “salsato” della gente britannica».

L’invenzione

La ricostruzione della genesi del chicken tikka masala proposta da Robin Cook è quella che trova maggior credito, sebbene abbia tutta l’aria di una leggenda metropolitana. Il piatto, secondo questa teoria, sarebbe stato creato all’inizio degli anni Settanta dal cuoco pakistano di un ristorante di Glasgow, Ali Ahmed Aslam dello Shish Mahal, aggiungendo un po’ di zuppa di pomodoro in lattina ai bocconcini di pollo (tikka) cotti al forno, per le rimostranze di un cliente che li trovava troppo secchi.

Gli eredi di Ali, ancora al timone della popolare insegna scozzese, lo danno per certo, e così fanno alcuni esponenti della politica locale supportati da qualche storico. Chi bazzica il mondo del cibo sa bene quanto possa essere “indirizzabile” la ricerca storiografica volta ad assegnare la paternità dei piatti, specie quando le fonti sono fragili o addirittura inesistenti.

Troppo importante per la gente del luogo, troppo veniale per poter essere accusati di falso con qualche conseguenza professionale. Quali che siano i fatti, che la storia porti a una ricetta del Punjab o agli esperimenti di un celebre ristorante di Delhi negli anni Quaranta, non spostano la questione di un centimetro.

Il mio professore di greco del liceo, per spiegare l’amore ateniese per la tragedia, diceva questo: le storie che racconta Euripide non sono mai accadute. Ciononostante, sono vere.

La copertina del secondo numero dell'inserto mensile Cibo, dal 23 luglio in edicola e in digitale

L’amore britannico per il chicken tikka masala, tale da rivendicarne la genesi a colpi di campagne politiche e da inserirlo nei quiz per ottenere la cittadinanza, oggi è messo a dura prova dalle circostanze.

Dalla Brexit che ha reso impossibile reperire forza lavoro qualificata per i ristoratori indiani, grazie al salario minimo di 35mila sterline necessario per poter regolarizzare ogni lavoratore extra-See (Spazio economico europeo) sbarcato nel Regno dopo il 2011.

Dall’esplosione della pandemia e della conseguente moria dei ristoranti. Ogni settimana chiudono due curry house, nel Regno Unito. Delle settanta che costellavano Brick Lane, oggi, ne sono rimaste poco più di venti.

I bangladesi arrivati negli anni Sessanta per lavorare nel tessile e poi diventati ristoratori di successo ora hanno figli e nipoti laureati, che preferiscono lavorare nella finanza piuttosto che gestire il ristorante di famiglia. Storie simili a quella di Rishi Sunak, possibile prossimo inquilino del 10 di Downing Street al posto di Boris Johnson. Più britannico di così…

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