- Cos’è che rende così indecenti le immagini dell’assalto a Capitol Hill? In cosa consiste quello stridore che sentiamo? Non credo si tratti solo dell’oltraggio democratico.
- Credo che in quel senso di scandalo ci sia soprattutto lo shock del vedere quella gente in quel contesto: qualcosa che sta tra il kitsch e lo straniamento brechtiano, un sovvertimento dell’ordine che non genera però nulla di liberatorio.
- La natura di questo sgomento va cercata altrove. Manca un linguaggio, una messinscena organica della prima e più strutturante fra tutte le violenze: la disuguaglianza economica e culturale.
L’assalto a Capitol Hill da parte dei manifestanti il 6 gennaio ha fatto levare un coro pressocché unanime: una concorde e generale sensazione di scandalo, di indignazione, di sgomento. Si dirà: la violenza perpetrata ai danni delle istituzioni democratiche. Senz’altro: e non intendo dissociarmi da questo sconcerto. Provo però ad aggiungere due ulteriori ragionamenti: solo una manciata di interrogativi, basati più sulla percezione italiana di quei fatti che non sui fatti in sé.
Attacco al potere
Facciamo innanzitutto un esercizio d’immaginazione: poniamo il caso che quelle persone radunate a Capitol Hill abbiano ragione. Sospendiamo l’incredulità e romanzescamente facciamo finta che davvero ci sia stato un sopruso democratico, un ribaltamento forzoso della volontà popolare: in questo caso, cos’avrebbero dovuto fare quelle persone? Mi chiedo: è o non è ammissibile l’attacco al potere? La topica filmica di quelle immagini non è forse quella della rivolta dal basso? Del popolo che si ribella?
Uso i corsivi per segnalare espressioni che hanno per noi, cementati da una retorica cinematografica, un’accezione proverbialmente positiva. Sono immagini che tendenzialmente, in un film, ci vedrebbero nove volte su dieci dalla parte dei manifestanti: quella del popolo contro il potere è un’insurrezione di cui, nell’immaginario, siamo sostenitori. È un dato di fatto: quelle immagini che ora ci scioccano, sono le stesse che spesso associamo ai concetti di rivoluzione, di ribellione, di reazione popolare, dalla rivoluzione francese in poi.
A livello astratto teorico, prima di oggi chiunque, credo, avrebbe considerato positiva e salutare la disponibilità, l’irruenza, il “coraggio” con cui un manipolo di cittadini ha rischiato – e in almeno quattro casi tragicamente subìto – la morte pur di ristabilire una volontà democratica a loro avviso violata da un tirannico broglio istituzionale.
Il ruolo di Trump
Il discrimine è, naturalmente, la falsa motivazione, il movente sbagliato. In questo senso, Trump ha piena e diretta responsabilità di quanto avvenuto, e non solo la rimozione dal mandato presidenziale ma anche l’incriminazione golpista avrebbe allora piena ragion d’essere, mentre i manifestanti andrebbero scagionati tutti immediatamente.
Giacché ogni credenza, l’ha spiegato Foucault, è un gioco di verità, una pratica di fiducia nei confronti di una comunicazione: fidarsi del presidente degli Stati Uniti – soprattutto se si è, come in questo caso, suoi elettori – è pienamente lecito; ed è legittimo affidarsi alla sua narrazione, soprattutto lì dove non è possibile verificarla di persona.
Il crimine sarebbe quindi tutto nella falsa narrazione del Presidente in carica, ma non nell’atto in sé di attaccare il Congresso: che anzi più che un oltraggio alla democrazia ne costituisce, in un certo senso, un segno di salute: quale miglior segno, per una democrazia, di un folto gruppo di persone disposte perfino a morire per essa? Il golpe, si può dire, non è nei golpisti, ma negli occhi di chi li guarda: dal loro punto di vista, quella è una lotta per la democrazia, e non contro di essa.
L’origine dell’indecenza
Mi chiedo allora: che cos’è che rende così indecenti, scioccanti, addirittura imbarazzanti quelle immagini? In cosa consiste quello stridore che sentiamo? No, non credo si tratti solo dell’oltraggio democratico. Credo che in quel senso di scandalo ci sia anche, se non soprattutto, lo shock del vedere quella gente in quel contesto. Mi si perdonerà se tratto l’evento quasi esclusivamente in termini di narrazione e di drammaturgia: è il mio lavoro, e provo a verificarne strumenti che un politologo non può possedere. La presenza di quelle persone in quei luoghi è qualcosa che sta tra il kitsch e lo straniamento brechtiano: un sovvertimento dell’ordine naturale delle cose che non genera però in noi nulla di liberatorio. La natura di questo sgomento andrà cercato altrove.
Guardiamoli bene. Superiamo per un attimo l’indignazione, il ribrezzo, l’ironia nei confronti del pittoresco Jake Angeli travestito da sciamano. Cosa vediamo? Magliette scadenti, gadget d’accatto, cianfrusaglie comprate da Walmart, avanzi di Halloween. Volti esagitati, ironia ripugnante, corpi sfatti da cattiva alimentazione e nessuna frequentazione con il fitness, zigomi tumefatti da eccessi di psicofarmaci. Atteggiamenti sguaiati, debordanti, fuori luogo.
E intorno a loro: gli stucchi lucidi e immacolati, le porte di legno intarsiati, i leggii, le poltrone rococò. Tutto l’apparato della democrazia, che ora – ora che sono irrotti i barbari – appare improvvisamente come un apparato per ricchi, un meccanismo di classe. Loro forse vedono questo: e lo vedono stavolta con più chiarezza di noi, che stiamo dall’altra parte. Il nostro sguardo, abituato a vedere in quei corridoi abiti di sartoria, camicie stirate, cravatte ben annodate, ha un contraccolpo, registra il contrasto con sgomento: cos’è successo? Errore nel montaggio, crossover impazzito – un racconto perverso, degenerato, sbagliato. È tutto così fuori luogo.
L’effetto perturbante
È qui il nostro stridore? Forse è proprio questo che ci offende e ci sconcerta: quell’effetto perturbante che Mark Fisher definisce weird, e giustamente associa alle atmosfere degli incubi: il vedere qualcosa che non è dove dovrebbe essere. È questo che ci turba? Verrebbe allora da chiedersi: la democrazia è per noi una realtà viva o una rappresentazione estetica? Un reale valore o una narrazione che sopravvive solo se non viene turbata la sua coerenza scenografica?
Va aggiunta una constatazione, a costo di risultare volgare: quelli lì sono i poveri. Che piaccia o no, che quella folla ne costituisca un campione esaustivo (io non lo credo), ma sono pronto a scommettere che in quella folla violenta non ci fosse nessun grosso reddito, nessun grande contribuente americano.
Nell’orgoglioso disprezzo con cui li stiamo biasimando, facciamo i conti anche con questo dato: spesso – soprattutto chi di lavoro parla o scrive – si coltiva un’immagine idealizzata, novecentesca ed estremamente retorica del “popolo”. O, nel migliore dei casi, lo identifica con ciò che si vorrebbe che fosse. Ma, nel frattempo, lo si tiene tagliato fuori da qualsiasi vera elaborazione culturale. Ed è estremamente sintomatico che io mi trovi nell’imbarazzo linguistico di non sapere neanche come nominare quella categoria di persone di cui voglio parlare e di cui per estrazione faccio parte anch’io – ceto basso? i meno abbienti? popolo, gente, lavoratori, poveri?
I senza nome
Se le destre hanno resuscitato i nazionalismi, retoriche che pensavamo defunte per sempre in un mondo globalizzato, è forse perché hanno cominciato a nominare come “patrioti” persone che ormai nessuno neanche chiamava più in nessun modo. I “redditi bassi” sono una parte sterminata di popolazione – non solo negli Usa – e nemmeno sappiamo come nominarli senza cadere in concetti ottocenteschi o pudichi imbarazzi.
Questo la dice lunga su quale sia il vero tabù della nostra cultura, e su quanto questo (non) influenzi il nostro modo di leggere la realtà. Il disagio psichico e culturale dei manifestanti di Capitol Hill non nasce dal nulla: e sarebbe troppo comodo dare ogni colpa a Donald Trump e alle derive delle destre populiste.
Troppo comodo far passare le conseguenze come cause. Il cupo sbeffeggiamento nei confronti di Jake Angeli è anche, è bene dirlo, disprezzo di classe. Giacché la lucidità istituzionale, la cultura democratica, il decoro, il buongusto e la grazia non nascono dal nulla: e oggi sono anzi sempre di più il frutto di un privilegio sempre meno accessibile. Ed è preoccupante che venga così poco rilevato nel discorso pubblico.
C’è – giustamente – un nuovo linguaggio per le questioni del gender, un nuovo linguaggio per le discriminazioni razziali, un nuovo linguaggio per le discriminazioni sessuali. Manca quasi totalmente un linguaggio, una tematizzazione, una messinscena organica e strutturale della prima e più strutturante fra tutte le violenze: la disuguaglianza economica e culturale.
Tutte le disuguaglianze discendono da questo primo peccato originale. Finché non avremo iniziato davvero questo discorso, episodi come questo si ripeteranno, e sarà difficile andare oltre la pura indignazione: il solo sconcerto non può né potrà mai colmare i vuoti lasciati dalla ragione.
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