- Fino al 24 febbraio abbiamo vissuto una vita assolutamente felice.
- Quel giorno, come al solito, la mia sveglia era puntata alle 5.45 della mattina. Mi sarei preparata per andare al lavoro a Kiev. Mia madre mi ha chiamato qualche minuto prima che suonasse, urlando: «È iniziata la guerra!». Quando ho ricevuto la chiamata, ero sconvolta.
- Abbiamo capito che non saremmo riusciti a scappare e che dovevamo rifugiarci in un bunker il prima possibile. Ho preso una valigia e sono corsa nel primo rifugio che ho trovato. Non ce ne siamo andati da quel sotterraneo.
Mi chiamo Kateryna Kibarova. Ho 33 anni. Sono ucraina. Sono nata a Zaporizhzhia, una città industriale. Dopo aver finito gli studi ho trovato un ottimo posto di lavoro e all’età di trent’anni ho deciso di rimanere a Kiev e comprare un appartamento. Mentre valutavo alcuni quartieri di Kiev dove comprare casa, ho visitato anche alcuni sobborghi come Bucha e Irpin. Ho visto questi bellissimi quartieri periferici dove la vita è incredibilmente confortevole: giovani carini (queste sono cittadine giovani), buone infrastrutture, molto verde, case nuove.
Dato che non è molto lontano da Kiev, una ventina di minuti in macchina, ho deciso di comprare casa nella città di Bucha. Vivevamo in una bella città, con bella gente. Non abbiamo chiesto a nessuno di liberarci da nulla. Non abbiamo chiesto a nessuno di cambiare il nostro modo di vivere. Fino al 24 febbraio abbiamo vissuto una vita assolutamente felice.
L’inizio della guerra
Quel giorno, come al solito, la mia sveglia era puntata alle 5.45 della mattina. Mi sarei preparata per andare al lavoro a Kiev. Mia madre mi ha chiamato qualche minuto prima che suonasse, urlando: «È iniziata la guerra!». Quando ho ricevuto la chiamata, ero sconvolta. Non sapevo cosa fare. Avevamo sentito della guerra soltanto nei racconti dei nostri nonni o dai libri di storia. Quando ho visto una colonna di fumo nero nella direzione dell’aeroporto di Hostomel, ho capito: è fatta, e non abbiamo tempo per abbandonare la città.
La cosiddetta “autostrada di Varsavia” passa attraverso la città di Bucha. Il traffico era incredibile. Abbiamo capito che non saremmo riusciti a scappare e che dovevamo rifugiarci in un bunker il prima possibile. Ho preso una valigia e sono corsa nel primo rifugio che ho trovato. Siamo scesi lungo le scale il 24 febbraio. Nei tredici giorni successivi sono uscita soltanto un paio di volte. Presto abbiamo smesso di renderci conto di che giorno era – eravamo in un stato come di delirio.
Non ce ne siamo andati da quel sotterraneo. Eravamo fortunati perché in quel rifugio alcuni uomini sapevano usare la saldatrice. Hanno montato una porta per rinforzare quella che c’era, e hanno messo dei montanti per proteggerla. Ci stavamo già preparando. Avevamo capito che stava per succedere qualcosa di terribile. Il 2 marzo ho deciso di andare a casa per prendere alcuni oggetti di valore, perché sapevo che probabilmente avremmo tentato di fuggire; aspettavamo l’apertura dei corridoi umanitari per l’evacuazione.
Ho assistito a una scena che non scorderò mai più. Siamo andati rapidamente a piedi a casa, che era soltanto a tre minuti di distanza. A metà del tragitto ho sentito un rumore di cingoli e istintivamente sono corsa in un piccolo parcheggio vicino a un centro commerciale. Mi sono nascosta per capire da che parte veniva il rumore. Non riuscivo a capire cosa stava succedendo. Poi li ho visti: carri armati che serenamente marciavano sulla strada, con i soldati russi sulla ralla con i mitragliatori. Dietro a loro c’era un trenino da luna park nel quale, mi sembrava, avevano caricato i loro compagni che erano stati uccisi.
In quel momento è apparsa la macchina rossa del mio vicino di casa. Andava nella direzione dei soldati. Hanno sparato alla macchina, dove c’era una famiglia con un bambino, senza battere ciglio, senza pensare. Hanno sparato senza senso. L’orrore è rendersi conto di non poter fare nulla per aiutare queste persone. Nulla se non chiudere la bocca, aspettare che passino, altrimenti il prossimo sarai tu, perché nessuno sulla loro strada rimarrà in vita.
Sono rimasta lì per un po’, non ricordo quanto, finché non se ne sono andati. Con le gambe tremanti sono ritornata nel rifugio e non sono più uscita, se non per una chiamata ai miei genitori per dire loro che ero viva.
Morte e piombo
A un certo punto non c’era più elettricità. Non avevamo luce, acqua, gas. C’erano 12 gradi nel sotterraneo e anche bambini piccoli. Abbiamo soltanto pregato e ancora pregato. Io ho pregato per una morte rapida, perché avevamo sentito che nei rifugi vicino al nostro i soldati chiedevano di scegliere se essere bruciati vivi o fucilati.
Sapevamo già in quei giorni che la gente veniva ammazzata per strada. E poi l’orrore, quando siamo usciti dopo due o tre giorni, e l’aria era pregna di morte e piombo. Non sono in grado di definire quello che abbiamo vissuto. È uno stato di paura: sarai ucciso oggi, o domani. Non sopravviverai. Abbiamo capito: era impossibile essere salvati.
La città era occupata. Ci siamo resi conto che potevamo solo pregare e credere che saremo scappati. Così abbiamo passato tredici giorni, tredici giorni di orrore. Ero grata di non avere famiglia, perché sentire delle esecuzioni di mariti e figli è devastante. Questi destini spezzati, questo orrore, queste atrocità sono impossibili da capire e comunicare.
Dopo tredici giorni nel rifugio abbiamo capito cosa sarebbe successo dopo. Non avevamo molta acqua. Gli edifici con le caldaie venivano scientificamente presi di mira. Non potevamo prendere acqua da lì. Non avevamo quasi più cibo. Abbiamo capito che non saremmo sopravvissuti a lungo. Il rifugio non era riscaldato. La gente ha iniziato ad ammalarsi. Ovviamente la nostra condizione psicologica era anche peggiore, perché eravamo sempre coscienti che saremmo stati uccisi. Ogni giorno, ogni minuto sai che verrai ucciso. Abbiamo imparato tutte le preghiere a memoria. Era impossibile resistere a tutto questo.
Siamo stati fortunati
Il 9 marzo abbiamo deciso di prendere le auto e guidare, con altre centinaia di auto, lungo la strada che gli autobus per l’evacuazione avrebbero dovuto usare. Era la stessa strada che facevo per andare al lavoro. Normalmente ci volevano una quarantina di minuti per arrivare a Kiev. Noi ci abbiamo messo sette ore. Eravamo in una lunga fila di macchine, mentre i carri russi ci venivano incontro. Ogni tanto puntavano la mitragliatrice contro una delle auto, per spaventarci.
Lungo la strada abbiamo visto macchine crivellate di colpi, fatte esplodere o entrambe le cose. Quando la città è stata liberata, tutto il mondo ha visto cos’era successo a Bucha. Noi lo abbiamo visto il 9 marzo. Abbiamo visto un ciclista ucciso a sangue freddo; era lì per terra, con la sua bici. Abbiamo visto i cadaveri ovunque, centinaia di macchine distrutte. Bisogna parlare di queste cose.
Siamo stati fortunati, lo ripeterò un milione di volte. Siamo stati fortunati non perché siamo riusciti a fare qualcosa, non perché avevamo particolari abilità. Siamo stati fortunati.
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