- È stata fissata al 10 ottobre la nuova udienza del gup sull’omicidio di Giulio Regeni. Il giudice ha sospeso il procedimento perché mancano ancora gli indirizzi dei quattro agenti della National Security accusati del rapimento e dell’uccisione del giovane ricercatore.
- La ministra Marta Cartabia aveva promesso ai genitori di Giulio Regeni che si sarebbe recata al Cairo per ottenere gli indirizzi dei quattro agenti. Ma la richiesta, inoltrata il 20 gennaio alle autorità egiziane, non ha mai ricevuto risposta.
- Il 15 marzo, al posto della Cartabia, a volare al Cairo è stato il direttore della cooperazione giudiziaria italiana. In quell’occasione le autorità egiziane hanno ribadito che la la procura generale considera chiuso il caso.
Non c’è stata alcuna collaborazione da parte delle autorità egiziane sulla vicenda di Giulio Regeni. La dichiarazione è perentoria, e arriva dalla ministra della giustizia Marta Cartabia, in una nota consegnata al gup nel giorno dell’udienza sull’omicidio del ricercatore italiano trovato morto il 3 febbraio del 2016 nella periferia del Cairo. Le sue parole non hanno fatto altro che anticipare la decisione del giudice che, così come accaduto lo scorso gennaio, ha deciso di sospendere il procedimento, fissando una nuova udienza al 10 ottobre.
Servono altre prove, servono soprattutto gli indirizzi dei quattro agenti della National Security egiziana, senza i quali non si possono notificare gli atti agli accusati e disporre un rinvio a giudizio.
Anche se non sappiamo dove abitano, i nomi di questi agenti li conosciamo bene: sono il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Tutti accusati di sequestro di persona pluriaggravato, e Sharif anche di concorso in lesioni personali aggravate e concorso in omicidio aggravato.
Il viaggio mancato della Cartabia
Lo scorso gennaio la ministra Cartabia aveva promesso ai genitori del giovane ricercatore che si sarebbe personalmente recata al Cairo per cercare di ottenere gli indirizzi degli agenti. Lo aveva fatto in videoconferenza insieme al presidente del Consiglio italiano Mario Draghi.
Ma come scritto dall’ordinanza del gup, Roberto Balestrieri, la sua richiesta di incontrare l’omologo egiziano è stata inoltrata il 20 gennaio e non ha mai ricevuto risposta. Un gesto diplomaticamente rilevante che è stato comunicato ai giudici solo oggi.
Eppure lo scorso 31 marzo l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio De Scalzi, era stato accolto a braccia aperte al Cairo dal presidente egiziano, Abdel Fattah el-Sisi. «Il capo di stato ha invitato l’Eni a continuare le esplorazioni nel paese per garantire il massimo sfruttamento delle risorse», aveva scritto in quell’occasione il quotidiano di stato Al-Ahram.
Il Cairo è sempre stato importante per l’Italia. Ora lo è di più perché è uno dei paesi candidati a fornire gas in alternativa alla Russia. El-Sisi lo sa: agli uomini d’affari tributa grandi onori e alla diplomazia italiana che chiede conto della morte di un suo cittadino lascia le briciole.
Così, il 15 marzo, al posto della Cartabia, a volare al Cairo è stato il direttore della cooperazione giudiziaria italiana. In quell’occasione le autorità egiziane hanno ribadito che la procura generale considera chiuso il caso Regeni e quindi non è possibile procedere con altre indagini.
La vicenda processuale
La ricerca della verità per Giulio Regeni si snoda da anni fra questi due binari di rapporti paralleli, tra affari e diplomazia. E il caso si è arenato nel nostro sistema giudiziario dopo anni di scarsa collaborazione e depistaggi da parte dell’Egitto.Per i quattro agenti della National Security, il 10 dicembre scorso la procura di Roma aveva notificato, secondo le norme previste per gli indagati “irreperibili”, la chiusura delle indagini.
Poi, il 25 maggio, nonostante continuassero a mancare i domicili, il gup Pierluigi Balestrieri aveva disposto il rinvio a giudizio sottolineando che «la copertura mediatica capillare e straordinaria aveva fatto assurgere la notizia della pendenza del processo a fatto notorio». Gli imputati, insomma, non potevano essere all’oscuro dell’indagine a loro carico.
A ottobre il colpo di scena. Nell’aula bunker di Rebibbia il processo si ferma alla prima udienza. La terza sezione della Corte di assise di Roma, infatti, ribalta la decisione del gup accogliendo la tesi dei quattro legali della difesa d’ufficio: a causa delle lacune dell’impianto accusatorio, non «c’è certezza che gli imputati siano a conoscenza del procedimento e che quindi si siano sottratti volontariamente al processo».
Si arriva così a gennaio del 2022, quando il gup Roberto Ranazzi dispone la trasmissione degli atti al governo italiano per verificare sia la possibilità di interloquire ancora con le autorità egiziane, sia l’esito della rogatoria che chiede di conoscere i domicili dei quattro agenti.
Il giudice dispone anche una nuova ricerca da parte dei Carabinieri del Ros tramite l’utilizzo di fonti aperte. Anche questo tentativo si rivela vano: gli uomini del reparto operativo speciale riescono a individuare solo gli indirizzi dei posti di lavoro dei quattro agenti.
L’indagine e le parti mancanti
La vicenda giudiziaria è travagliata perché il fascicolo delle indagini è carente. La collaborazione tra la procure di Roma e quella del Cairo è sempre stata difficile. Ma è diventata quasi impossibile quando l’Italia, quasi in sordina, il giorno prima di ferragosto del 2017, ha deciso di rimandare l’ambasciatore in Egitto.
Lo aveva ritirato 16 mesi prima, quando le autorità egiziane avevano fatto ritrovare i documenti del ricercatore di Fiumicello attraverso un grossolano tentativo di depistaggio. Una messa in scena costata la vita a quattro egiziani presentati come appartenenti a una “banda di rapitori di stranieri”.
Il ritiro della nostra delegazione diplomatica resta l’unico vero provvedimento che Roma abbia preso nei confronti del Cairo. Anche la commissione di inchiesta parlamentare ha concluso che il rientro dell’ambasciatore italiano ha rallentato le indagini.
Così, nelle carte dell’inchiesta che Domani ha potuto consultare, non sono solo i domicili degli agenti a mancare. Tra le migliaia di pagine, diverse delle quali sono verbali in arabo scritti a mano su alcuni fogli protocollo, si scopre che mancano anche alcune date di nascita dei quattro accusati e che gli agenti - e questo è un altro punto sottolineato dai difensori d’ufficio - sono stati sentiti come persone informate sui fatti e non come indagati.
Senza il lavoro degli investigatori italiani – che ha portato, sul ciglio della chiusura delle indagini, cinque nuove testimonianze anonime – non sarebbe stato possibile neanche ricostruire così nel dettaglio le responsabilità degli 007 egiziani.
Gli affari tra Italia e Egitto
Tra il 2016 e il 2020, periodo in cui si è svolta l’indagine, le relazioni tra i due paesi si sono rafforzate sia nel settore energetico sia nella vendita di armamenti. Per esempio, il giacimento gasiero di Zohr scoperto dall’Eni, il più grande del Mediterraneo, è stato inaugurato in pompa magna nel 2018 proprio nei giorni del terzo anniversario della scomparsa di Regeni.
E mentre la procura di Roma continuava a chiedere collaborazione, l’azienda del cane a sei zampe ha continuato a vincere appalti. A dicembre, pochi giorni dopo che l’udienza preliminare sul caso Regeni si arenasse di nuovo, Eni ha ottenuto cinque nuove licenze esplorative dal ministero del Petrolio egiziano.
A scuotere i rapporti diplomatici tra Roma e Il Cairo non è stato nemmeno il caso di Patrick Zaki, il ricercatore egiziano dell’Università di Bologna arrestato a febbraio del 2020 al suo rientro al Cairo e poi rilasciato dopo quasi due anni di prigionia e ancora sotto processo. Pochi mesi dopo l’arresto del giovane egiziano, il governo italiano ha dato il via libera alla maxi commessa da circa dieci miliardi di euro per la fornitura di armamenti al Cairo.
Ieri alla fine dell’udienza, l’avvocato della famiglia Regeni Alessandra Ballerini ha chiesto l’intervento del premier Mario Draghi. Per Il Cairo, però, il caso è chiuso.
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