Anche il figlio del presidente egiziano al Sisi seguiva personalmente il caso di Regeni, per questo venne inviato a Mosca. Le forze di sicurezza hanno fin da subito inscenato il depistaggio della rapina. Il prossimo 29 aprile la procura di Roma dovrà decidere se rinviare a giudizio quattro imputati
Un nuovo testimone sul caso Regeni ha rivelato importanti dettagli sui depistaggi inscenati dopo la sua morte. Lo scorso 7 aprile è stato ascoltato dalla procura di Roma che lo ha ritenuto un testimone affidabile.
A fine mese, il 29 aprile gli inquirenti italiani dovranno decidere se rinviare a giudizio i quattro imputati accusati del sequestro (uno di loro è indagato pure per l’omicidio) del giovane ricercatore italiano. Tre di loro appartengono alla National security e uno alla polizia giudiziaria.
La testimonianza
«Io ero con lui» dice il testimone, riferendosi a Mohammed Abdallah il sindacalista egiziano che denunciò Giulio Regeni ai servizi di sicurezza del generale al Sisi. «Ho notato che era palesemente spaventato – continua – so che durante la giornata del 2 febbraio 2016 Abdallah era nell’ufficio della State security a Nasr City, in compagnia di un ufficiale di polizia e questi, in sua presenza, ha ricevuto una telefonata da un suo collega del commissariato di Dokki, dove era detenuto Regeni che, a seguito di tortura, è deceduto». A riportare i virgolettati della testimonianza è il Corriere della Sera, che aggiunge il coinvolgimento di un nuovo importante personaggio nella vicenda: «Anche il figlio di al Sisi, Mahmoud Al Sisi, un ufficiale dei servizi segreti, seguiva personalmente il caso di Regeni. Dopo tali eventi, per evitare connessioni con la morte del giovane, è stato trasferito in Russia come addetto militare all’ambasciata egiziana a Mosca».
Secondo quanto riporta il Corriere, il cittadino egiziano ascoltato dai carabinieri del Ros e dal pm Colaiocco si è presentato spontaneamente presso una sede diplomatica italiana. «Inizialmente era per me difficile sapendo della sorveglianza degli apparati egiziani – racconta agli investigatori – ma siccome adesso so che ci sarà un procedimento penale in Italia contro gli autori dell’uccisione del giovane italiano, per solidarietà alla madre e per seguire la mia coscienza a difesa di tanti innocenti incarcerati illegalmente in Egitto li sto riferendo ora».
Il depistaggio
«L’ufficiale a cui faceva riferimento Abdallah e che ha sentito parlare al telefono di Regeni con un altro collega è tale Hisham Helmy, ed è lo stesso che dava istruzioni su come evitare il loro coinvolgimento. Il contenuto della telefonata riguardava le modalità di depistaggio sulla morte di Regeni: l’ufficiale in questione diceva che bisognava deformare il corpo fornendo il sospetto che fosse stato rapinato, e quindi accusare qualche pregiudicato del delitto, facendo ritrovare alcuni effetti personali del giovane italiano in loro possesso». Le dichiarazioni del teste coincidono con quello che è accaduto a marzo 2016. I documenti di Regeni sono apparsi durante una perquisizione a casa del capo di una banda di rapinatori che sarebbero stati ucci in uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza egiziane, dopo che erano stati accusati della morte del ricercatore italiano. Questa pista è stata subito ritenuta poco affidabile dalla Procura di Roma, ma non dalle autorità egiziane. «So che le persone inizialmente accusate del delitto erano già detenute nelle carceri egiziane — ha spiegato il testimone — tale circostanza mi è stata riferita la sera del 2 febbraio sempre dall’Abdallah, e faceva parte della fase di occultamento delle prove prospettato dall’ufficiale nel colloquio telefonico con il suo collega di Dokki».
I verbali in mano alla procura di Roma ora possono dare una spinta ulteriore per la decisione del 29 aprile, una data sempre più vicina e che potrebbe garantire una svolta sul caso.
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