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Nonostante la questione dello Xinjiang sia entrata a far parte del dibattito pubblico soltanto negli ultimi anni, la situazione della minoranza musulmana uigura in Cina è sotto gli occhi di molti almeno dal 2016.
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Le vessazioni e i lavori forzati imposti nell’ultimo decennio alla minoranza uigura nello Xinjiang sono il simbolo della svolta repressiva del regime.
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Per il Partito i musulmani nell’area promuovono “terrorismo, separatismo ed estremismo religioso”. Le accuse di genocidio da parte di molti paesi occidentali non hanno fermato le violazioni.
Nonostante la questione dello Xinjiang sia entrata a far parte del dibattito pubblico soltanto negli ultimi anni, la situazione della minoranza musulmana uigura in Cina è sotto gli occhi di molti almeno dal 2016.
Le prime attenzioni sistematiche sono arrivate con i violenti scontri tra uiguri e i cinesi di etnia han, quella dominante nella Repubblica popolare, registrati nella capitale regionale di Urumqi nell’estate 2009, a cui hanno fatto seguito numerosi episodi, tra cui una serie di attacchi particolarmente violenti nel 2014.
Questi scontri, attribuiti a ostilità razziali alimentate anche dalla disparità economica e dai tentativi della leadership cinese di circoscrivere la libertà religiosa e politica delle minoranze etniche, hanno segnato uno dei molti punti di svolta nell’approccio del partito comunista cinese verso la minoranza turcofona, inaspritosi sempre di più nel corso degli anni. Già nel 2009, una volta sedate le rivolte, la leadership cinese impose il coprifuoco, interruppe i servizi di telefonia mobile e Internet, e inviò agenti di polizia armati a perlustrare i quartieri della capitale.
Sorveglianza capillare
Nel 2014, dopo poco più di un anno alla guida del partito e del paese, il presidente Xi Jinping pronunciò, durante una visita nello Xinjiang, una serie di discorsi rivolti a un gruppo selezionato di funzionari cinesi. Mai resi pubblici ufficialmente, vennero classificati come “top secret” poiché se fatti trapelare avrebbero comportato «danni particolarmente gravi alla sicurezza e agli interessi del paese». Questi discorsi, rivelati dal New York Times prima e in maniera più approfondita dal tribunale popolare britannico Uyghur Tribunal poi, aprirono la strada alla normalizzazione e all’inasprimento delle politiche per il “mantenimento della stabilità” nello Xinjiang.
Suggerendo ad esempio iniziative di fusione etnica, di istruzione bilingue e rieducazione, di vigilanza e controllo preventivo, di adeguamento delle politiche sul controllo delle nascite, i discorsi di Xi hanno trovato riscontro negli anni successivi con l’implementazione di politiche di assimilazione linguistica e culturale, campagne di mobilizzazione di civili per fini di indottrinamento e sorveglianza, e interventi sistematici di sterilizzazioni e aborti forzati, tra gli altri.
Nonostante la “guerra del popolo al terrorismo” sia stata lanciata nel 2014, la nomina di Chen Quanguo a segretario del partito nella regione autonoma dello Xinjiang nell’agosto 2016 segna un ulteriore spartiacque nell’approccio di Pechino. Forte della sua esperienza in Tibet, Chen ha potenziato le capacità di sorveglianza capillare del partito nello Xinjiang, ad esempio avviando un’imponente campagna di reclutamento per gli apparati di pubblica sicurezza e installando “stazioni di polizia a convenienza del popolo” che, pur offrendo servizi “convenienti” come la possibilità di ricaricare cellulari o attrezzature mediche di base, svolgono in realtà funzioni di sorveglianza tra cui monitoraggio video e tracciamento biometrico.
Oltre ad aver reso lo Xinjiang uno dei luoghi più sorvegliati al mondo, a Chen si deve l’uso massiccio dei centri di detenzione e rieducazione, che il partito insiste nel chiamare «centri di istruzione vocazionale e di addestramento al lavoro» (VETCs nell’acronimo inglese) e di cui ha negato l’esistenza fino al 2018.
L’accesso alla regione è fortemente limitato, quindi investigare sul posto rimane difficile – molti giornalisti evitano di entrare in contatto con i residenti dello Xinjiang per paura di metterli in pericolo. Le visite sanzionate dalla leadership cinese, come i tour organizzati per giornalisti stranieri e per gli influencer, che vogliono smontare quelle che Pechino definisce «campagne diffamatorie organizzate dalle forze anti-cinesi negli Stati Uniti», sono invece ben accette e pubblicizzate. Di statistiche ufficiali non ce ne sono, ma si stima che tra 800mila e due milioni di musulmani, tra cui uiguri, kazaki e uzbeki, siano stati detenuti in queste strutture dal 2017.
Difficoltà di accesso
Di fronte a un numero sempre crescente di testimonianze che documentano un controllo capillare e sistematico che penetra negli aspetti più intimi della vita privata dei residenti dello Xinjiang, e che si concretizza in detenzione arbitrarie e in gravi violazioni dei diritti umani, la comunità internazionale ha domandato a più riprese di vederci chiaro.
Perplessità sul trattamento delle minoranze entiche nello Xinjiang sono state sollevate per la prima volta alle Nazioni unite nel 2018 e, da quel momento, le richieste di accesso alla regione sono aumentate. Con un comunicato congiunto, nel luglio 2019 22 paesi, per la maggior parte europei ma comprensivi anche di Australia, Canada, Giappone e Nuova Zelanda, hanno sollecitato un’indagine del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite. Di risposta, 37 paesi, tra cui Arabia Saudita, Corea del nord, Filippine, Myanmar e Russia, hanno invece difeso il trattamento degli uiguri e di altre minoranze nella regione elogiando «gli straordinari risultati conseguiti dalla Cina nel campo dei diritti umani». Questa dinamica si ripete con cadenza regolare alle Nazioni unite: si assiste quasi sempre agli stessi due blocchi contrapposti, per cui se da una parte si chiede accesso alla regione, dall’altra si dichiara approvazione per la lotta contro il terrorismo di Pechino.
Durante un evento virtuale nel marzo 2021, l’ambasciatore tedesco alle Nazioni unite ha domandato al suo omologo cinese: «Se la Cina non ha niente da nascondere, perché non garantisce libero accesso all’alta commissaria per i diritti umani?». Ritardata dalle resistenze di Pechino e in parte anche dal Covid-19, la visita dell’alta commissaria Michelle Bachelet a maggio 2022 ha però fatto infuriare le Ong e anche gli stessi esperti delle Nazioni unite.
Le aspettative erano basse e la conferenza stampa al termine della visita non ha dipanato i numerosi dubbi riguardo la trasparenza di Pechino su come il partito gestisca gli uiguri nello Xinjiang. Bachelet ha ammesso di non poter valutare la grandezza reale del sistema dei cosiddetti VECTs, i centri che Pechino chiama “di istruzione vocazionale”, ma di aver ricevuto assicurazione dal governo cinese che queste strutture di detenzione e rieducazione sono state smantellate.
L’alta commissaria ha poi confessato che nell’unica prigione che ha visitato nessun uiguro era detenuto per terrorismo o crimini politici, le accuse che Pechino usa più comunemente per giustificare il trattamento delle minoranze etniche nella regione nordoccidentale.
Manipolazioni politiche
A ridosso della visita programmata, sono trapelati nuovi documenti confidenziali. Gli Xinjiang police files raccolgono istruzioni dettagliate sul mantenimento della sicurezza all’interno dei campi di rieducazione, mostrando unità speciali di polizia che trasportano armi d’assalto e guardie che bendano e ammanettano mani e piedi dei detenuti per i trasferimenti tra le strutture. Nei discorsi secretati si danno istruzioni di aprire il fuoco sui fuggitivi, nel caso questi non si fermassero dopo i colpi di avvertimento.
Tutti comportamenti che non collimano con la propaganda di Pechino, che racconta di «studenti che si laureano» completando le lezioni in questi centri che dice di aver chiuso nel 2019. Immagini satellitari però mostrano il contrario, ovvero l’espansione di strutture precedenti o la costruzione ex novo di centri di detenzione posizionate in zone remote ma non troppo, vicino a infrastrutture che facilitano il trasporto di persone, merci e energia.
Il fatto che nello Xinjiang Bachelet sia “stata accompagnata da funzionari del governo per tutta la visita” lascia intendere che Pechino non ha mai veramente avuto intenzione di garantire libero accesso, perché qualcosa da nascondere probabilmente ce l’ha.
Della lotta ai “tre mali”, ovvero terrorismo, separatismo ed estremismo religioso, Pechino ha fatto la sua fissazione nello Xinjiang. Ossessionato dall’idea di mantenere il controllo politico sul suo vasto territorio, il partito sovrappone terrorismo ed estremismo religioso, prendendo di mira anche quelle espressioni non violente. Le stesse leggi che legittimano le politiche regionali di Pechino si prestano ad applicazioni arbitrarie che consentono la profilazione criminale di minoranze etniche e religiose sulla base di reati mal definiti. Delle manipolazioni politiche sono testimoni le misure che vietano “barbe anormali” e il rifiuto di guardare la televisione di stato. Anche quegli oggetti considerati illegali e quindi confiscati ai detenuti: tra quelli rinvenuti negli Xinjiang police files, ci sono copie del Corano e un libro di esercizi di lingua uigura.
Violazione dei diritti umani
Vista la portata delle politiche per il “mantenimento della stabilità”, alle richieste di accesso alla regione si sono aggiunte le accuse di genocidio. Diversi paesi, tra cui Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Belgio, Francia, Lituania, Paesi Bassi, Repubblica Ceca hanno accusato la Cina di genocidio – definito dal diritto internazionale come «l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Pochi giorni fa il parlamento europeo in seduta plenaria ha definito le politiche cinesi «a serio rischio di genocidio».
Insieme a queste accuse, ci sono quelle per cui Pechino starebbe costringendo migliaia di uiguri e altre minoranze etniche a lavorare in fabbriche e campi nello Xinjiang e in altre parti della Cina, in violazione dei trattati che vietano il lavoro forzato. Chiaramente, determinare cosa costituisce genocidio e lavoro forzato rimane molto complicato, ma senza accesso libero sul posto per ispezionare le strutture o parlare con i diretti interessati è virtualmente impossibile. Comunque, la portata delle attività nella regione ha contribuito a dare slancio politico al dibattito tra lavoro forzato e commercio internazionale, spingendo numerosi stati a prendere delle contromisure.
Dopo la serie di sanzioni di Stati uniti, Canada, Regno unito e Unione europea che hanno provocato la stessa reazione di Pechino, i paesi del G7 l’anno scorso hanno annunciato una stretta sulle catene di fornitura globali. Anche fuori dagli Usa iniziano a prendere forma iniziative che restringono importazioni ed esportazioni e introducono requisiti di due diligence per le imprese. Trattandosi però di violazioni sistematiche promosse da uno stato terzo, questi strumenti economici vanno integrati in una strategia commerciale più ampia che non si limita alle misure promosse dai singoli paesi.
Dal canto loro, di fronte allo spettro delle violazioni dei diritti umani in Xinjiang le singole compagnie hanno reagito in maniera disomogenea. Qualcuno come Patagonia e Victoria’s Secret hanno annunciato di non rifornirsi più del cotone proveniente dalla regione (continuando però in alcuni casi a mantenere parte della produzione in Cina), e altri come H&M si sono trovati a gestire un boicottaggio guidato da Pechino per le loro scelte commerciali. C’è anche chi come la Disney ha collaborato con il dipartimento di propaganda del partito nello Xinjiang, ringraziato nei titoli di coda del remake di Mulan, o come Volskwagen secondo cui il suo stabilimento nella regione autonoma è «economicamente insignificante» ma rimarrà comunque aperto perché «sta avendo un impatto positivo». Addirittura, Apple, Nike e Coca-Cola hanno cercato di fare pressioni sul Congresso americano per annacquare la legislazione sui beni realizzati con il lavoro forzato.
Le fattispecie sono tante e tutte diverse ma si riallacciano a un discorso più ampio sulla distribuzione della responsabilità nella prevenzione delle violazioni dei diritti umani tra stato e imprese. Per quanto avanzino le chiamate al decoupling che vogliono scoraggiare le importazioni dalla Cina, è chiaro che ridurre le dipendenze dalle catene di fornitura di Pechino sarà un’operazione complessa e soprattutto non economicamente conveniente per tutti i settori produttivi nella stessa misura.
Tecnologie a doppio uso
Quel che è certo è che le imprese devono imparare a navigare la complessità del mercato cinese, valutando anche i rischi politici e normativi, perché continuare a mantenere business e politica separati non è più possibile. Queste contraddizioni e i dilemmi che le accompagnano diventano ancora più evidenti se si prendono in esame le tecnologie di sorveglianza.
Grazie ai documenti contenuti nei China Cables che il Consorzio internazionale di giornalisti investigativi ha reso pubblici nel 2018, per la prima volta si è delineato come le politiche di sorveglianza e polizia predittiva nello Xinjiang facciano uso di ricerche manuali, telecamere di sicurezza, intercettazioni telefoniche, dati bancari tra gli altri, per raccogliere e aggregare enormi quantità di dati personali e identificare in questo modo i papabili candidati alla detenzione. Quello che emerge è una sorveglianza iperaggressiva, pervasiva e fortemente integrata. In questo stato di polizia il monitoraggio elettronico, le visite a domicilio e i posti di blocco sorvegliano i pensieri degli individui presi di mira, entrano nelle loro case e interferiscono con i loro movimenti quotidiani alla continua ricerca di crimini non meglio specificati.
Molto di quello che accade è consentito dall’utilizzo di tecnologie sofisticate sviluppate da un gruppo ristretto di compagnie cinesi e non, altamente specializzate. Il dibattito sul controllo delle esportazioni per le tecnologie a doppio uso, cioè con implicazioni civili e militari, è stato galvanizzato anche dalle testimonianze sulla sorveglianza nello Xinjiang. Da un lato ci sono le preoccupazioni di ridurre la competitività delle aziende europee se misure simili non vengono adottate anche da altri paesi, e dall’altro il regime in vigore sembra non coprire tutte le casistiche necessarie: Amnesty International ha rivelato che nel 2018 una società olandese ha venduto un software per l’analisi comportamentale a istituzioni collegate al “mantenimento della stabilità” nello Xinjiang.
Le società cinesi coinvolte nella sorveglianza della regione nordoccidentale sono diverse; tra queste troviamo i giganti Dahua, Hikvision, Megvii Technology, Sense Time, Yitu e anche Huawei per citare i più famosi.
Mentre molto del dibattito sull’utilizzo delle tecnologie cinesi in Europa ruota intorno alla loro affidabilità, non si possono evitare considerazioni etiche e morali su quello che comporta l’utilizzo di apparecchiature di sorveglianza prodotte da queste compagnie. Peraltro, molte sono già in uso anche in Italia: i termoscanner di Dahua a palazzo Chigi riportati da Il Foglio, le telecamere di sorveglianza di Hikvision e Dahua nelle sale intercettazioni di 134 procure, nella sede centrale del ministero della Cultura, nelle vie e piazze di di numerosi Comuni, tra le altre, come rivelato dalle inchieste di Wired e anche all’aeroporto di Fiumicino raccontate da Report. Secondo le stime di Wired, ci sono almeno 2.430 impianti di sorveglianza targati Hikvision e Dahua acquistati dalle pubbliche amministrazioni italiane.
Mettendo per un momento da parte le considerazioni sulla sicurezza cibernetica e sulla dipendenza nelle catene di fornitura globale, stupisce come l’attenzione verso la regolamentazione delle tecnologie di sorveglianza non si soffermi più di tanto a riflettere sulle implicazioni etiche nella scelta dei fornitori.
Ovviamente l’acquisto di questi strumenti non è di per sé illegale, molto dipende dall’uso che se ne fa. Ma le tecnologie di sorveglianza servono appunto a sorvegliare, e se queste vengono comprate dalle stesse aziende che partecipano alle violazioni dei diritti fondamentali di una minoranza etnica nel loro paese di origine – senza che questo allarghi l’attenzione del dibattito pubblico – forse non stiamo avendo tutte le conversazioni che dovremmo avere.
Anche se Chen Quanguo non ricopre più l’incarico di segretario del partito nello Xinjiang, l’eredità della sua linea dura rimane solida. Dalla fine del 2021, il ruolo è passato a Ma Xiangrui che nel suo discorso inaugurale ha promesso di continuare con le politiche di stabilità sociale indicate da Xi Jinping, senza consentire alcuna inversione di rotta.
Se Pechino sembra ancora avere intenzione, nelle parole dell’ex segretario Chen, di “rastrellare chiunque vada rastrellato” senza alcuna salvaguardia per i diritti fondamentali che riteniamo essere universali, è giusto condannare le azioni di Pechino nei forum internazionali per poi foraggiare l’apparato di sorveglianza cinese, ad esempio acquistando le tecnologie proprio da quei fornitori che sostengono lo stato di polizia del partito?
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