- I fanatici della mela si rassegnino: le consegne subiranno ritardi, qualcuno non troverà l’iPhone 14 sotto l’albero di Natale. Tutta colpa di quegli insubordinati di operai che il mese scorso sono scappati in massa dalla Foxconn di Zhengzhou (il capoluogo della provincia dello Henan, soprannominato la “città degli iPhone”).
- Con le loro proteste stanno rallentando le spedizioni dalla Cina verso i mercati internazionali nel periodo dell’anno più redditizio per Apple.
- Per tenere buoni gli altri dipendenti, per questo mese è stato quadruplicato l’ammontare dei bonus. «È stata davvero dura, ma alla fine abbiamo fatto fronte alla carenza di manodopera, e per questo dobbiamo ringraziare il nostro governo», ha dichiarato Yang Han, un dirigente di Foxconn.
I fanatici della mela si rassegnino: le consegne subiranno ritardi, qualcuno non troverà l’iPhone 14 sotto l’albero di Natale. Tutta colpa di quegli insubordinati di operai che il mese scorso sono scappati in massa dalla Foxconn di Zhengzhou (il capoluogo della provincia dello Henan, soprannominato la “città degli iPhone”), e che con le loro proteste stanno rallentando le spedizioni dalla Cina verso i mercati internazionali nel periodo dell’anno più redditizio per Apple.
Negli ultimi giorni Foxconn - la compagnia taiwanese a cui la multinazionale californiana appalta la produzione in Cina - era riuscita a far ripartire la catena di montaggio di Zhengzhou grazie alla mobilitazione delle autorità locali. A dare man forte alle tute blu, erano stati spediti nell’impianto attivisti del partito comunista e perfino militari in congedo. Circa 100mila ammutinati erano stati rimpiazzati a tempo di record.
Per tenere buoni gli altri dipendenti, per questo mese è stato quadruplicato l’ammontare dei bonus. «È stata davvero dura, ma alla fine abbiamo fatto fronte alla carenza di manodopera, e per questo dobbiamo ringraziare il nostro governo», ha dichiarato Yang Han, un dirigente di Foxconn.
Ma martedì sera è riesplosa, violenta, la protesta. Questa volta ad accendere la miccia è stata l’estensione dell’anzianità di servizio necessaria ai nuovi assunti per maturare un’indennità pari a una mensilità, oltre alle lamentele per la promiscuità (positivi al Covid e non) e la sporcizia nei dormitori.
Centinaia di giovani hanno caricato con spranghe e a sassate lo schieramento interno alla fabbrica di dàbái (“grandi bianchi”), infermieri e volontari che la propaganda celebra come eroi nazionali, ma che per i lavoratori migranti si stanno trasformando in un simbolo di oppressione. Al grido di «sfasciamo tutto!», hanno devastato gli onnipresenti chioschi dove vengono somministrati i tamponi. Nel tentativo di sedare la rivolta, il giorno successivo la proprietà ha promesso 10mila yuan (1.340 euro) agli ultimi arrivati che si dimetteranno e lasceranno immediatamente la “città degli iPhone”.
La fuga di massa
Già il mese scorso le maestranze non avevano creduto alle rassicurazioni del management, secondo cui l’epidemia, all’interno del complesso che ospita 300 mila lavoratori, era sotto controllo. I compagni che ogni giorno venivano trasferiti nelle tute isolanti verso le strutture di quarantena e le richieste della proprietà di spostarsi a vivere dalle camerate alle linee di produzione - per limitare gli spostamenti e dunque la diffusione del contagio - suggerivano il contrario. Le voci sui social parlavano di 20mila infetti, aggiungendosi alle lamentele per la carenza di cibo e le pessime condizioni igieniche sia in fabbrica sia nei locali di isolamento.
Dopo una settimana in cui erano rimasti sigillati nella “città degli iPhone”, il 29 ottobre gli operai hanno sfondato in massa i cancelli. In mancanza di mezzi di trasporto, a causa dei divieti anti Covid, i giovani - per la maggior parte migranti interni dello Henan – hanno percorso decine di chilometri a piedi per raggiungere i villaggi d’origine.
Hanno trovato vaschette piene di cibo e bevande abbandonate a bordo strada: c’è chi ha espresso così la solidarietà con i ribelli della Foxconn. Ad attenderli, anche a casa, le implacabili restrizioni della politica “contagi zero”: la quarantena obbligatoria prima di poter riabbracciare figli e consorti lasciati indietro perché il permesso di residenza (hùkŏu) “rurale” nega loro i servizi essenziali nella metropoli di Zhengzhou.
I video della migrazione proletaria sono diventati virali. C’è chi li ha commentati come una “evasione di massa”, chi ha paragonato le immagini del 2022 a quelle di 80 anni fa, quando la carestia provocò un esodo dallo Henan.
Il “circuito chiuso”
A Zhengzhou le autorità locali hanno implementato il sistema “a circuito chiuso”, lo stesso sperimentato per permettere al riparo dall’epidemia migliaia di imprese, dai colossi nazionali Huawei e BYD, a quelli stranieri come Foxconn e Tesla. Gli impiegati sono stati confinati all’interno di una bolla – l’azienda stessa – senza contatti con il mondo esterno. È questo sistema che ha garantito l’estate scorsa la consegna senza rinvii del nuovo iPhone 14. È questo sistema che ha permesso ai processi di produzione e distribuzione interni alla Cina di continuare e rifornire regolarmente i mercati internazionali, anche mentre i paesi concorrenti erano bloccati dai lockdown.
I lavoratori lo hanno accettato finché hanno retto: l’affetto con partner e figli attraverso WeChat (il WhatsApp locale), sempre lo stesso cibo della mensa, socialità ridotta ai minimi termini, i continui controlli dei dàbái. Quando le condizioni sono divenute intollerabili, la bolla è esplosa, a Zhengzhou come nel distretto del tessile di Guangzhou, dove nei giorni scorsi ci sono state manifestazioni e scontri.
«Sappiamo che per Foxconn la produzione viene prima di tutto, ma vogliamo vivere una vita normale. Non vogliamo essere preoccupati e guardinghi tutto il giorno. Vogliamo solo mangiare un pasto normale, toglierci le mascherine e dormire, dare un’occhiata al mondo esterno e ripristinare la bellezza della vita», ha scritto sui social un operaio. Gli insorti di Zhengzhou rappresentano una nuova generazione di cinesi, nati negli anni Duemila, che sembra dare priorità alla salute, alla famiglia, rispetto a un salario di circa mille euro guadagnato in assenza di sicurezza e libertà.
Laboratorio del mondo
Le recriminazioni delle tute blu sono rimaste lettera morta per l’assenza di un sindacato degno di questo nome. Quella della Foxconn di Zhengzhou (istituita nel 2011), come tutte le rappresentanze dei lavoratori, è obbligatoriamente affiliata alla Federazione sindacale cinese (Acftu), una “organizzazione di massa” con il compito di trasmettere alla società le direttive del partito durante il maoismo, trasformatasi in seguito all’avvento del mercato in uno strumento di controllo e repressione nelle mani delle imprese.
Foxconn sforna il 70 per cento degli iPhone (la stragrande maggioranza a Zhengzhou), che costituiscono il 52 per cento del fatturato di Apple.
Con i suoi 12 impianti in nove città e circa 1 milione di dipendenti, in Cina Foxconn è il primo datore di lavoro privato. La fuga di massa del mese scorso e le contestazioni degli ultimi giorni hanno riportato in primo piano la questione della dipendenza dalla Cina di una parte importante dell’economia mondiale, sollevata frequentemente in riferimento alle tensioni politiche tra Pechino e Washington.
A Zhengzhou non ci si limita ad assemblare componenti provenienti da altre parti del mondo. Al contrario il personale è altamente specializzato, lavora in impianti flessibili ed efficienti, con la robotica avanzata, l’intelligenza artificiale e altre tecnologie che Foxconn è stata tra le prime a utilizzare nella manifattura. Gli operai di Foxconn sono preziosi, per questo hanno potuto contrattare retribuzioni sempre migliori e spesso l’azienda li ha riassunti dopo proteste simili a quella di Zhengzhou.
Marina Ye Zhang ha spiegato che, ogni anno, dopo che Apple rilascia i nuovi modelli dei suoi gadget elettronici, «le fabbriche di Foxconn avviano un processo guidato dagli esperimenti, attraverso il quale ingegneri qualificati e lavoratori esperti facilitano le iterazioni tra i team di ricerca e sviluppo e di progettazione di Apple e i fornitori di componenti e moduli per ottenere nuovi prodotti con scala, velocità, precisione ed efficienza dei costi».
L’autrice di Demystifying China's Innovation Machine: Chaotic Order (Oxford University Press, 2021) sottolinea che «ci vogliono anni, a volte decenni, per raggiungere il livello richiesto per tradurre progetti complessi in produzione di massa con precisione ingegneristica e a un costo competitivo. In effetti, Foxconn manifesta la trasformazione della Cina da “fabbrica del mondo” a “laboratorio del mondo”».
Secondo la lista dei fornitori stilata da Apple, circa la metà dei suoi 190 fornitori sono compagnie cinesi e circa 160 (cinesi e straniere) producono i loro componenti in Cina. L’India, dove Foxconn ha inaugurato nel 2018 una fabbrica che produce tuttora solo il 5 per cento degli iPhone, potrebbe aver bisogno di decenni per mettere su filiere complesse e complete come quelle di Zhengzhou. Mentre l’impianto aperto l’anno scorso in Vietnam, dove Apple produce laptop e tablet, dipende dalle catene di fornitura cinesi.
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