Can che abbaia non morde? Forse non ancora, ma l’ennesima simulazione di accerchiamento di Taiwan lanciata ieri dall’Esercito popolare di liberazione (Epl) segnala che lo scenario a cui Pechino si sta preparando è quello di una resa dei conti con l’isola che considera una sua provincia ribelle.

Come le colonne di carri armati di Putin che (quasi) nessuno credeva potessero invadere l’Ucraina, le decine di caccia e navi da guerra che in queste ore continuano a superare la Linea mediana (il confine non ufficiale tra i due territori) ci dicono che una quarta crisi dello Stretto (dopo quelle del 1954-55, 1958 e 1995-96) può scoppiare da un momento all’altro, in assenza di dialogo tra Pechino da una parte e, dall’altra Taipei (con cui si è interrotto dal 2016, dall’arrivo al governo del Partito progressista democratico, Dpp) e, soprattutto, Washington.

A innescare il terzo test degli ultimi due anni di un blocco navale intorno all’ex Formosa è stato il discorso pronunciato giovedì scorso dal presidente e leader del Dpp, William Lai Ching-te, in occasione del “double ten”, il 10 ottobre in cui si celebra la rivoluzione che, nel 1911, fece crollare la dinastia Qing e portò all’avvento, l’anno successivo, di quella Repubblica di Cina che, nel 1949, dopo la vittoria dei maoisti sui nazionalisti, si trasferì armi e bagagli a Taiwan.

Un territorio che per motivi ideologici (per il Partito comunista cinese conquistarlo significa completare l’unificazione nazionale), geopolitici (l’isola, a 180 chilometri dalla Cina continentale, ha strette relazioni politiche e militari con gli Stati Uniti) ed economici (vi si producono i semiconduttori più avanzati al mondo, l’oro di Taiwan) è diventato una bomba a orologeria.

Lai “indipendentista”

Per Pechino “Spada congiunta 2024-B” è un «severo avvertimento per le azioni separatiste delle forze indipendentiste di Taiwan». Taipei invece ha condannato “fermamente” quello che giudica un «comportamento irrazionale e provocatorio» e ha annunciato l’invio di «forze adeguate... per rispondere, intraprendendo azioni concrete per salvaguardare la libertà, la democrazia e difendere la sovranità della Repubblica di Cina».

L’Epl ha mobilitato decine di mezzi della marina (tra cui la sua prima portaerei, la “Liaoning”, di cui ha voluto dimostrare le capacità di lancio), dell’aviazione e della Forza missilistica, circondando l’isola e simulando blocco di porti, combattimenti e operazioni di sbarco. Un war game che secondo lo stesso governo cinese è più ampio e più vicino alle coste taiwanesi dei due precedenti (dopo la visita a Taipei della speaker della Camera Pelosi, nel 2022, e in seguito al discorso d’insediamento di Lai).

Giovedì scorso Lai, che si è auto definito un “lavoratore pragmatico per l’indipendenza di Taiwan” ha detto le cose che ripete da sempre, auspicando un improbabile dialogo con Pechino sul cambiamento climatico e la prevenzione delle epidemie mentre pronunciava parole irricevibili dall’altra sponda dello Stretto. «La Repubblica di Cina si è già stabilita a Taiwan, Quemoy, Matsu e Penghu, e non è subordinata alla Repubblica popolare cinese. […] La Repubblica popolare cinese non ha il diritto di rappresentare Taiwan», ha sostenuto Lai.

Tuttavia il 13 gennaio scorso il Dpp ha conquistato il terzo mandato presidenziale consecutivo (non era mai successo nella storia della giovane democrazia taiwanese) e la pazienza di Pechino potrebbe esaurirsi, in un contesto interno segnato dal rallentamento economico e dalle pressioni dei nazionalisti per passare all’azione.

E nell’eventualità di un ritorno alla Casa bianca di Donald Trump, che ha già dato evidenti segnali di essere interessato alla sua protezione solo nella misura in cui Taiwan è in grado di ripagare il complesso militare-industriale Usa con compensi adeguati alle forniture belliche che Washington è impegnata a fornirle in base al Taiwan Relations Act del 1979.

Se vince Trump…

L’amministrazione Biden non vuole che si accenda una miccia nel Pacifico dopo che la controparte cinese, in incontri ai massimi livelli, negli ultimi mesi le ha più volte ribadito le sue “linee rosse”. Il sotto segretario di stato per l’Asia orientale e il Pacifico, a un giornalista che gli chiedeva quale fosse la sua opinione sulla retorica di Lai ha replicato di rivolgere la domanda direttamente al presidente taiwanese.

«L’interesse fondamentale degli Usa è il mantenimento della pace e della stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan», ha aggiunto Daniel Kritenbrink. Se al momento Washington sembra infastidita dalle continue esternazioni “indipendentiste” dell’ex vice di Tsai Ing-wen (la presidente dal 2016 al 2024 è impegnata in questi giorni in un tour per promuovere la causa taiwanese nell’Unione europea), le cose potrebbero cambiare nel caso nelle elezioni del 5 novembre Trump battesse Kamala Harris.

Nella precedente esperienza presidenziale Trump è apparso tra i migliori amici di Taiwan. Nel 2019 la sua amministrazione ha notificato al Congresso lo stanziamento annuale di armi all’isola maggiore di sempre (10,7 miliardi di dollari) e sono proliferati i contatti politici di altro livello Washington-Taipei, inaugurati dalla clamorosa telefonata del 2 dicembre 2016 dello stesso Trump a Tsai per congratularsi per la sua elezione, giustificata dal miliardario repubblicano come una mossa per ottenere dai cinesi concessioni sugli scambi bilaterali e sulla Corea del Nord. Tuttavia allora The Donald era coadiuvato da consiglieri tutti convintamente pro-Taiwan. Ma se ci atteniamo alle sue idee, a Taipei hanno di che stare in campana.

Basta leggere cosa c’è dietro alcune sue dichiarazioni, come quella su Taiwan che «ci ha rubato i microchip e che deve pagarci le armi che le passiamo», o che «è a 9.500 miglia dagli Stati Uniti e 68 dalla Cina». Per Trump Taiwan è soprattutto una pedina da utilizzare per riequilibrare la relazione commerciale con la Cina, e difenderla potrebbe rappresentare il classico gioco che non vale la candela.

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