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Anche alcuni fra i più ardenti sostenitori del Partito democratico e della leggendaria speaker della Camera, Nancy Pelosi, hanno dovuto ammettere che la sua visita a Taiwan è stato un gesto politico sconsiderato che ha generato enormi tensioni politico-militari con la Cina senza produrre benefici chiaramente identificabili per gli Stati Uniti, per l’occidente e, soprattutto, per la causa di Taiwan.
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Come se tempismo e contesto, nelle relazioni internazionali e nella politica in generale, non fossero parti essenziali del messaggio, ma meri accidenti su cui si può sorvolare in nome della bontà dei princìpi astratti.
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Il testo fa parte del numero di Scenari: "Alla corte di Xi Jinping", in edicola e in digitale dal 12 agosto.
Anche alcuni fra i più ardenti sostenitori del Partito democratico e della leggendaria speaker della Camera, Nancy Pelosi, hanno dovuto ammettere che la sua visita a Taiwan è stato un gesto politico sconsiderato che ha generato enormi tensioni politico-militari con la Cina senza produrre benefici chiaramente identificabili per gli Stati Uniti, per l’occidente e, soprattutto, per la causa di Taiwan.
Il New York Times ha concesso in un editoriale che effettivamente non c’era alcun bisogno di aumentare la tensione con Pechino, non prima però di esercitarsi in acrobazie retoriche ad altissimo coefficiente di difficoltà per riuscire a fare il decoupling fra «il tempismo sbagliato» di Pelosi e «sostanza» del suo messaggio, che invece era «centrata».
Come se tempismo e contesto, nelle relazioni internazionali e nella politica in generale, non fossero parti essenziali del messaggio, ma meri accidenti su cui si può sorvolare in nome della bontà dei princìpi astratti.
Che il ragionamento sia capzioso lo si può dedurre anche facendo un esperimento mentale non troppo complicato: come avrebbe commentato la visita il quotidiano se a condurla fosse stato Kevin McCarthy, il repubblicano più alto in grado alla Camera e candidato naturale al ruolo di speaker se il Gop conquisterà quel ramo del Congresso alle elezioni di midterm di novembre, uno che peraltro ha una linea anticinese non molto diversa da quella di Pelosi? Ecco, appunto.
Le crepe nella leadership
Partigianerie a parte, la missione della speaker è stata disastrosa per vari ordini di motivi. Innanzitutto, per il segnale di disgregazione della leadership degli Stati Uniti che ha offerto alla Cina e al mondo intero, dove per mondo intero s’intendono in particolare autocrazie e regimi illiberali vari che esultano all’apparire di ogni crepa nel mondo liberal-democratico. Pelosi è andata a Taiwan contro il consiglio di Joe Biden e del Pentagono, facendo leva sulla fragile – in questo contesto – nozione manualistica dell’indipendenza del potere legislativo, cosa che avrebbe dovuto inverosimilmente equiparare la missione della terza carica della prima potenza mondiale alla visita di cortesia di una delegazione della Commissione esteri. Evidentemente la manovra impegnava nei fatti l’Amministrazione americana e non poteva che essere letta come un boicottaggio ufficiale della linea dell’ambiguità strategica e una flagrante violazione degli accordi vigenti fra Cina e Stati Uniti sullo status di Taiwan, a cui pure, com’è noto, Washington fornisce assistenza e aiuto militare. Il tutto in un clima di discordia intra washingtoniana (e intra democratica) che non può che far piacere a Xi Jinping e compagni. Nel tentativo di dimostrare la propria forza ideale, gli Stati Uniti hanno finito per far vedere il loro deficit di leadership politica.
Una seconda ragione per cui il viaggio di Pelosi è stato improvvido è stata la reazione della Cina, fuori scala rispetto al fatto scatenante. Pechino ha innestato su un’esercitazione già programmata il più grande dispiegamento di forze della storia dell’Esercito popolare di liberazione: per quattro giorni Taiwan è stata accerchiata da caccia, elicotteri e navi, la linea mediana sullo stretto di Taiwan è stata violata decine di volte, missili sono caduti nelle acque a uso commerciale esclusivo del Giappone, cosa che il ministro della Difesa giapponese, Nobuo Kishi, ha definito una «seria minaccia alla sicurezza nazionale del Giappone e alla sicurezza del popolo giapponese». In generale, l’esibizione muscolare ha aggravato le tensioni nell’angolo del globo che catalizza tutte le possibili frizioni geopolitiche contemporanee.
Non solo. La Cina non si è fatta sfuggire l’occasione per estendere questo tipo di manovre, facendo capire che la maxi esercitazione era solo l’antipasto di movimenti militari che si estenderanno nel tempo. Sono le prove generali per un blocco navale, opzione estrema che sarebbe devastante per l’economia di Taiwan e per il mondo intero, visto il ruolo centrale che ha nella produzione di semiconduttori, i mattoni dell’architettura digitale frequentata quotidianamente da tre quarti abbondanti dell’umanità.
Produrre semiconduttori negli Stati Uniti costa il 50 per cento in più rispetto a Taiwan, un divario che serve a mettere in prospettiva il mastodontico investimento da 53 miliardi di dollari promosso da Biden per sostenere la produzione interna, e dalle parti di Washington i politici, specialmente i democratici, iniziano a porsi il problema di come giustificare presso gli elettori anche questo eventuale aumento, che si somma all’inflazione galoppante, alle catene di approvvigionamento devastate, al costo delle materie prime e della benzina.
Certo, il blocco navale è un’eventualità improbabile, ma prima che accadessero sembravano improbabili anche la Brexit, l’elezione di Trump, la pandemia, l’assalto del Campidoglio e l’invasione dell’Ucraina. Chi può dire con certezza quali opzioni sul tavolo e quali no?
Era tutto prevedibile
Ma la vera ragione che rende scellerata la scelta di Pelosi, ancorché nobilitata da intenzioni democratiche e solidali, è che questa severa turbolenza era facilmente prevedibile, anche perché lei stessa aveva annunciato le proprie intenzioni mesi fa, quando era chiarissimo che cosa avrebbe generato.
Era chiarissimo perché l’Amministrazione Biden ha adottato una politica analoga a quella antagonista e incendiaria dell’Amministrazione Trump, della quale ha limato appena gli elementi più spigolosi della guerra commerciale, l’ossessione dei falchi anti cinesi che volavano attorno a Trump mentre lui era impegnato a rimuovere documenti classificati dalla Casa Bianca o a distruggerli nei bagni della medesima.
L’amministrazione democratica ha messo in chiaro la sua postura intransigente già nel primo incontro diplomatico con la controparte cinese, nel marzo del 2021. In quel frangente Biden ha parlato della «crescente rivalità con la Cina» e il segretario di Stato, Antony Blinken, ha trasformato la sua dichiarazione diplomatica in un’invettiva condotta non a porte chiuse ma a favore di telecamere, cosa che ha particolarmente irritato i cinesi. Washington non ha mai virato rispetto a quella via, già ampiamente battuta da Trump, tanto Jeffrey Bader, il principale consigliere di Obama sull’Asia, ha detto che gli uomini di Biden hanno «continuato a scimmiottare l’approccio distruttivo di Trump».
Si potrebbe anche aggiungere che l’approccio distruttivo di Trump mostrava linee di continuità con quello di Barack Obama, il padre del “pivot to Asia”, riorientamento strategico fondamentale che però è stato recepito da Pechino «un tentativo di mettere i nostri vicini asiatici contro di noi», come ha scritto sul New York Times Wang Wen, membro del Partito comunista cinese e già propagandista del Global Times, profilo che permette di capire meglio la lettura che il Politburo dava di quella fase, raccontata in occidente dagli uomini di Obama come un percorso di riconciliazione fra partner strategici.
Il problema è che nel frattempo la posizione della Cina è cambiata in modo sostanziale. Lo Xi che nel 2015 andava a Taiwan per offrire nuove collaborazioni commerciali è drammaticamente diverso dal leader imperiale che oggi reclama il controllo di Hong Kong e minaccia quel che rimane del modello “un paese, due sistemi”; che poi è lo stesso che certifica l’amicizia «infinita» con la Russia di Vladimir Putin, l’autocrate che con la forza militare intende riportare sotto il dominio russo ciò che crede gli spetti di diritto.
Lo Xi di oggi è anche il leader di un paese che nell’ultimo decennio, mentre gli Stati Uniti s’agitavano nel pantano della Grande recessione, è cresciuto a una media annuale di oltre il 7 per cento. È il timoniere alla vigilia del terzo e inedito mandato che ha esteso a dismisura l’influenza internazionale della Cina attraverso scambi commerciali, investimenti e infrastrutture, agganciando a sé pezzi sempre crescenti dell’economia americana e globale.
L’Amministrazione americana ha ottime ragioni per guardare con preoccupazione all’evoluzione del ruolo della Cina nel mondo e al suo cambio di postura, ma non saranno le visite simboliche dei leader democratici a far cambiare direzione a al regime. Tutti sanno dove porta la via lastricata di buone intenzioni.
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