Pechino vince grazie ai cluster industriali e agli investimenti in ricerca più che ai sussidi, mentre l’Occidente ha delocalizzato la produzione
Auto elettriche (Ev), batterie al litio, pannelli fotovoltaici, pale eoliche… è lunga la lista delle industrie “green” nelle quali la Cina ha conquistato il primato, controllando intere “supply chain”, cioè tutte le fasi che portano a un determinato prodotto finito, dall’estrazione delle materie prime passando per la manifattura dei componenti.
I dati sono inequivocabili: nel 2023 era concentrato in Cina il 70 per cento della produzione globale di Ev; sei compagnie locali erano nella classifica delle prime dieci nel settore delle batterie (CATL e BYD prima e seconda). Nella seconda economia del pianeta è concentrato il 90 per cento della produzione globale di pannelli solari, il 70 per cento di batterie al litio, e il 65 per cento di turbine eoliche.
All’avanzata del made in China in settori strategici per la transizione energetica le economie più avanzate hanno opposto il protezionismo. Sugli Ev, ad esempio, l’Unione europea ha portato i dazi sulle importazioni dalla Cina fino al 45,3 per cento, mentre il mercato nordamericano (Usa e Canada) si è blindato con tariffe del 100 per cento. Il World Economic Forum ha sottolineato che «le azioni unilaterali intraprese da Stati Uniti, Ue e Canada (…) non devono essere viste isolatamente dal contesto geopolitico più ampio. Pur prendendo di mira la politica industriale e i sussidi cinesi, l’Occidente ha introdotto politiche e sussidi simili, come l’Inflation Reduction Act statunitense e vari programmi di aiuti di stato nei paesi membri dell’Ue».
Dal momento che si combatte ad armi (quasi) pari per la conquista di quote di mercato, più che i sussidi vale la pena analizzare altri aspetti trascurati della politica industriale della Cina, un paese in cui gli ultimi decenni di sviluppo accelerato hanno dato luogo a una vera e propria crisi ambientale, che tuttavia si è impegnato davanti alle Nazioni unite a raggiungere la neutralità carbonica (ovvero l’equilibrio tra le emissioni e l’assorbimento di carbonio ) nel 2060, solo dieci anni dopo l’Ue.
Obiettivo quello europeo che, nel medio periodo (fino a quando i player occidentali non avranno recuperato terreno), l’aumento dei costi delle importazioni green dalla Cina causato da quello dei dazi rischia di rallentare e, comunque, rendere più caro. I famigerati sussidi – sui quali si è concentrata l’inchiesta, “anti-sussidi”, sui veicoli elettrici made in China della Commissione europea – non rappresentano che uno degli strumenti di una politica industriale volta a favorire lo sviluppo di colossi internazionali dell’industria green.
Aggregazione
Ciò a cui si è prestato meno attenzione sono i cosiddetti “cluster”, ovvero l’aggregazione in un determinato territorio di un gran numero di aziende - dello stesso settore o affini - per favorire il contenimento dei costi. Un esempio di distretto attualmente in espansione è quello di Lin-gang, a 75 chilometri dal centro di Shanghai, affacciato sul Mar cinese orientale. L’allora segretario locale del partito comunista Li Qiang (divenuto in seguito premier) vi attirò la Gigafactory di Tesla inaugurata nel 2019. Col passare degli anni Lin-gang è diventata una “zona pilota di libero scambio” dove si stanno concentrando aziende tecnologiche e innovative.
Secondo Anders Hove la differenza principale tra Cina e Occidente, quella che ha permesso alla prima di accumulare negli ultimi anni un tale vantaggio nella green economy, sta proprio nei cluster, sui quali noi non avremmo puntato a sufficienza. Lo studioso dello Oxford Institute for Energy Studies ha rilevato che la tipica strategia delle aziende occidentali è piuttosto quella di «specializzarsi solo su alcune competenze chiave, per poi cercare di disaggregare la produzione in luoghi in cui le tasse sul lavoro o i costi della logistica sono bassi».
Ma, ha sostenuto Hove in un articolo pubblicato su Dialogue Earth, «la disaggregazione della produzione ostacola lo sviluppo di cluster manifatturieri che possono svilupparsi rapidamente grazie alla concentrazione di capitale, a una base di lavoratori qualificati e reti di scambio di conoscenze tra fornitori».
E proprio questo approccio occidentale renderebbe sostanzialmente inutili sia le misure protezionistiche contro le auto importate dalla Cina, sia gli aiuti di stato, come, ad esempio, i 902 milioni di euro concessi recentemente dal governo tedesco per costruire in Germania uno stabilimento di Northvolt (batterie al litio). Infatti – conclude Hove – «se le industrie ad alta intensità manifatturiera si trovano a scontare un deficit di innovazione e velocità a causa della produzione disaggregata, allora la protezione e i sussidi dovranno rimanere in vigore per sempre, e gli allarmi su una transizione energetica ad alto costo probabilmente si dimostreranno fondati».
Capitale umano
Per quanto riguarda la produzione di Ev, la Cina ha dato vita a quattro cluster: quello nell’area Pechino-Tianjin-Hebei; quello del delta del Fiume delle perle, che comprende Shanghai (Tesla), Hefei (Volkswagen, Nio) e la componentistica concentrata a Suzhou; quello dell’area della Grande baia incentrato su Guangzhou (Gac, Xiaopeng); infine quello, più piccolo, di Chongqing-Chengdu, nel sud-ovest del paese. Nel campo delle energie rinnovabili, i maggiori agglomerati di aziende sono presenti sulla costa orientale, nella zona tradizionalmente più sviluppata del paese, con le province del Jiangsu e dello Zhejiang che si sono affermate come principali hub nella fabbricazione di impianti fotovoltaici.
L’innovazione rappresenta un altro elemento fondamentale dell’ascesa tecnologico-industriale green della Cina. L’anno scorso le application della Cina su tecnologie verdi e a basse emissioni di carbonio tramite il relativo Trattato di cooperazione sui brevetti (Pct) sono state oltre 5.000, che le hanno assicurato la prima posizione globale per il terzo anno consecutivo. Secondo Climate Energy Finance, nel 2023 la Cina è stata il paese che ha investito di più nella transizione energetica: 676 miliardi di dollari, il 38 per cento della spesa globale (1.800 miliardi di dollari).
Materie Stem
Dati che richiederebbero una valutazione più approfondita ma che, comunque, testimoniano nel complesso la spinta cinese per l’economia green. E che sono il riflesso di un capitale umano più qualificato, con i costante aumento degli studenti che ogni anno si laureano nelle materie Stem (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica). Una recente ricerca dello Oxford Institute for Energy Studies ha rilevato che, oltre a questa forza lavoro specializzata “abbondante e in crescita”, a favorire l’innovazione sono state le politiche di formazione e attrazione dei cosiddetti “talenti” e le aziende private del settore che si sono buttate nel settore della green economy assumendosi i relativi rischi d’impresa.
Nel 2022, il numero di articoli scientifici di grande impatto di studiosi con sede in Cina ha superato per la prima volta quello di ricercatori con sede negli Stati Uniti, e il paese ha raggiunto per la prima volta anche il primato nell’indice di scienze naturali della rivista Nature. Il punteggio della Cina era solo un terzo di quello degli Stati Uniti nel 2015.
Clean energy innovation in China: fact and fiction, and implications for the future (questo il titolo della ricerca) ricorda che nel 2022, il numero di articoli scientifici a “impatto elevato” di studiosi residenti Cina ha superato per la prima volta quello di ricercatori negli Stati Uniti, e che sempre due ani fa il gigante asiatico ha raggiunto per la prima volta anche il primo posto nell’indice di scienze naturali della rivista Nature (nel quale, nel 2015, il suo punteggio era solo un terzo di quello degli Stati Uniti).
In definitiva è evidente che quello che imputa principalmente ai sussidi e alle altre forme di sostegno statale diretto alle aziende il successo della Cina nella green economy è uno sguardo distorto. E che, piuttosto che limitarsi ad aumentare i dazi, potrebbe rivelarsi più sensato “copiare” la Cina, favorendo i grandi distretti industriali green e varando politiche di sostegno massiccio alla ricerca.
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