In Cisgiordania da ottobre soldati e gang di coloni hanno ucciso oltre 600 persone e saccheggiato case. Se si mettono in fila gli ultimi fatti accaduti, l’ipocrisia e l’ignavia dei grandi paesi occidentali è evidente
La successione degli eventi è nitida, l’esito finale scontato: la pulizia etnica di ampie zone del West Bank. Restano tuttavia incognite, innanzitutto l’atteggiamento degli occidentali: fingeranno di non capire dove conducano le operazioni avviate dall’esercito israeliano? Si nasconderanno dietro blandi moniti a “non eccedere”, di fatto assecondando? O tenteranno una reazione, non fosse altro che per conservare un minimo di credibilità internazionale?
L’ipocrisia risulta un esercizio complicato quando si mettono in fila i fatti occorsi nel West Bank dall’autunno scorso a oggi. In principio il governo Netanyahu condannò i tre milioni di abitanti alla miseria. Dopo aver chiuso l’ingresso in Israele ai pendolari palestinesi, sequestrò per mesi i finanziamenti internazionali destinati all’Anp, di gran lunga il maggior datore di lavoro dei Territori. A quel punto entrò in crisi l’intera economica del West Bank, i servizi, i commerci.
Nel frattempo bande di coloni cominciavano ad attaccare piccoli villaggi di contadini, distruggendo oliveti, automobili, stalle. E la Knesset metteva in chiaro che i palestinesi non avrebbero mai avuto uno stato. Si rassegnassero a vivere a capo chino, sottomessi a un regime di apartheid.
Ai conati di resistenza abbozzati con parate folkloriche da aspiranti guerriglieri in divisa e con rari tentativi di attacchi terroristici, sempre sventati, l’esercito israeliano rispose con massicci raid. Da ottobre soldati e gang di coloni hanno ucciso oltre 600 persone, in scontri a fuoco oppure a freddo. Adesso lo Shin Bet denuncia le gang come «terrorismo ebraico», ma è un terrorismo protetto da una parte del governo, oltre che dalla polizia e da unità militari, che infatti non lo frenano né lo puniscono.
Nella ragionevole previsione, o nell’auspicio, che lo scontro cresca rapidamente in intensità, due giorni fa, il ministro degli Esteri Katz ha annunciato che nel West Bank l’esercito ora è autorizzato a replicare il metodo in uso a Gaza: e cioè potrà ordinare l’evacuazione di quartieri e villaggi, ufficialmente per non far correre rischi alla popolazione. Migliaia di famiglie si dovranno accampare nei campi. Se autorizzate a rientrare nelle case, troveranno macerie, oppure appartamenti razziati, o caseggiati che di notte tornano a essere zone di combattimento.
Come reagiranno? Molti ragazzi si uniranno alle strutture guerrigliere che adesso coordinano Hamas, Fatah e altre organizzazioni armate, alcune nuovissime. Non disponendo dei tunnel, delle armi pesanti e degli arsenali sotterranei di Hamas a Gaza, la guerriglia non potrà molto. Per antica vocazione giudeofobica e per malaccorta scelta strategica, parte tornerà al terrorismo dei kamikaze: Hamas già si dichiara favorevole. Aiuterà il governo Netanyahu e i suoi propagandisti in Occidente a spacciare l’intera resistenza per “terrorismo islamo-iraniano”.
Ma la gran parte degli abitanti del West Bank non si suiciderà in uno scontro impari. Senza lavoro, senza diritti, alla fame, spaventate a morte dalla sorte toccata a Gaza, grandi masse cercheranno di entrare in Giordania. Eventualità che non piace affatto al re Abdullah: i palestinesi sono già ora maggioranza, e nel 1970 i loro gruppi radicali tentarono di spodestare la monarchia hashemita. Da qui il tono veemente col quale Abdullah due giorni fa ha chiesto al grande alleato americano di fermare Israele.
Ma gli Stati Uniti sono in campagna elettorale, e Kamala Harris pare consapevole della trappola che le ha teso Netanyahu: se si mostra meno inconcludente di Biden rischia di perdere parte del voto ebraico; ma se rinuncia perde definitivamente il voto degli “uncommitted”. Però l’amministrazione può fare leva sulle linee di faglia che fratturano l’establishment israeliano per tentare di scalzare il governo. In questo può aiutare l’altrimenti inutile negoziato su Gaza.
Quella trattativa è morta da tempo, essendo chiaro che il governo israeliano non vuole abbandonare completamente la Striscia perché inevitabilmente quel territorio diventerebbe il primo grumo dello stato palestinese aborrito da gran parte della Knesset. Ma i negoziatori americani tralasciano questo punto nodale e tentano di costringere Netanyahu a concessioni su questioni laterali, però sgraditissime a parte della sua maggioranza, che potrebbe sfaldarsi.
Quanto ai governi dell’Europa maggiore, sembrano al solito attendere che Washington li sottragga alle proprie responsabilità. L’inconsistenza e l’attendismo lasciano spazio all’emergere di due opposte fazioni su quanto si prepara nel West Bank. La sinistra antisionista leggerà le operazioni israeliane come la conferma della settler colonialism theory, così riadattata: Israele sarebbe il prodotto di una sistematica aggressione colonialista agli arabi di Palestina, cominciata nel 1948 e ripetuta nel tempo (la menzogna opposta, in uso presso i media italiani, vuole che il peccato originale sia palestinese: avrebbero rifiutato la nascita di uno stato ebraico non per questioni negoziabili come la distribuzione delle terre fertili, ma per odio antisemita).
Se poi una parte del fronte palestinese reagisse con il terrorismo, la sinistra antisionista applicherà l’esimente concessa alle organizzazioni che combattevano il colonialismo: tutte monde di ogni peccato, quali che fossero le loro pratiche armate. Da qui il rifiuto di vedere la giudeofobia che permea la maggior parte delle organizzazioni palestinesi (ma non tutte), nella tradizione dell’indifferenza con la quale gli europei assistettero senza muovere un dito alla persecuzione degli ebrei in alcuni stati arabi nati dalle lotte anticoloniali (sull’espulsione di ventimila ebrei italiani dalla Libia è appena uscito un libro notevole, Notturno libico di Raffaele Genah).
All’opposto uno schieramento più vasto assolverà in via di principio la pulizia etnica del West Bank. Si dirà che Israele applica il diritto a difendersi, che dovremmo esserle grati perché combatte per noi l’islamico Asse del Male, che chi la critica è un utile idiota di Hamas o un antisemita. Peggio: opera al servizio della cospirazione internazionale.
È triste e bizzarro che a riproporre l’idea del grande complotto mondiale, dall’Ottocento un topos dell’antisemitismo, adesso sia parte della destra ebraica. «I nemici di Israele», scrive una consulente del governo Netanyahu contro l’antisemitismo, «dispongono di immense risorse economiche e intellettuali, dominano le strutture culturali progressiste», hanno «egemonizzato l’Onu e l’Unione europea». In scia un sito italiano titola: «Il piano dei Fratelli musulmani per infiltrare e dominare l’Occidente».
Chi volesse scapolare questa propaganda può trovare ispirazione in un articolo di Haaretz. Il quotidiano israeliano ha rievocato le figure di quaranta civili di Gaza uccisi in questi mesi. È rarissimo che nel corso di un conflitto un giornale prestigioso commemori con tanto rispetto ed empatia civili innocenti ammazzati dal proprio esercito.
Gesto allineato alla più nobile tradizione ebraica, oltre che coraggioso: ancorché patriottici e sionisti, quelli di Haaretz sono odiati dalla destra israeliana, un sito ebraico italiano totalmente allineato al governo Netanyahu li bolla come «schifosi traditori». Ed è noto quale sorte tocchi in guerra a chi tradisce.
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