La crisi scatenata dal massacro dell’ospedale ha polarizzato due fronti contrapposti. Da una parte Russia, Cina, Iran, tutte le piazze arabe. Dall’altra gli Stati Uniti e parte dell’occidente. E siamo ancora allo scontro tra democrazie e dittature
Comunque sia andata, se sia stato un razzo palestinese o un missile israeliano a cadere attorno all'ospedale, il risultato politico, inequivocabile, è la radicalizzazione di due posizioni inconciliabili: quanto di più utile per Hamas. Il mondo arabo che si scaglia contro Tel Aviv e l'occidente che tende a credere a un errore di lancio della Jihad islamica, l'altra formazione estremista di Gaza. Le prove prodotte dal governo Netanyahu sull'innocenza del suo esercito hanno convinto il presidente americano Joe Biden e sembrano le più solide mentre dalla Striscia replicano che nel momento della strage c'erano molti aerei ricognitori con la stella di Davide in volo e si chiedono perché non vengono mostrate le immagini che hanno sicuramente catturato.
Come è sempre successo, e purtroppo, in guerra quando si è sparato il primo colpo di fucile una vittima collaterale è la razionalità. Domina l'emotività che ha spinto immediatamente le piazze musulmane ad infiammarsi pressoché ovunque, centinaia di migliaia di persone in piazza, dal Libano alla Turchia, dalla Tunisia all'Iran alla Giordania, con moti di piazza e tentativi di assalto alle ambasciate di Israele, Stati Uniti, Francia. E ovviamente nei Territori occupati della Cisgiordania, a Nablus, Jenin, Ramallah, il capoluogo dove è stato contestato Abu Mazen, delegittimato presidente dell'Autorità nazionale palestinese rappresentante dell'ala laica. Hamas ringrazia e stacca un altro dividendo dopo la carneficina dello Shabbat di sangue, si consolida come unico campione della resistenza contro “l'entità sionista”. Non il solo dividendo. Un altro lo regala ai suoi protettori e finanziatori iraniani sciiti perché l'acuirsi della crisi intralcia ulteriormente il progetto israeliano della costruzione di un'amicizia con i Paesi sunniti del Golfo avviati con gli Accordi di Abramo. E infine assiste compiaciuto al caos scatenato in Europa da attentati veri o millantati. Ieri: una bomba molotov contro una sinagoga di Berlino, una scuola ebraica a Roma evacuata (ma si è scoperto poi che era un'esercitazione) per un allarme attentati così come quattordici aeroporti e per la terza volta la reggia di Versailles nella Francia già teatro dell'uccisione al coltello di un professore di scuola da parte di un fondamentalista islamico, e un aeroporto nel Belgio dei due svedesi uccidi da un sedicente affiliato Isis.
Ieri era mercoledì. E per capire come tutto sia cambiato dopo le centinaia di vittime all'ospedale basta un breve riepilogo di come era il mondo martedì. Joe Biden si apprestava a salire sull'Air Force One ed aveva in programma colloqui con Abu Mazen, con il re Abdallah di Giordania e il generale al-Sisi, presidente dell'Egitto, i due Stati confinanti con i quali Israele ha firmato un accordo di pace. Oltre, naturalmente, con un Benjamin Netanyahu messo nei fatti sotto tutela dall'alleato americano che dall'inizio sta cercando di imporre un uso limitato della forza per evitare vittime civili. Obiettivo raggiunto se, sempre martedì, Israele aveva dichiarato che l'invasione della Striscia di Gaza non è l'unica opzione militare al vaglio. Un presidente degli Stati Uniti non si muove per caso, anzi non ci sono precedenti di un inquilino della Casa Bianca che vola in un'area di guerra. Se lo fa, deve avere la ragionevole certezza di raggiungere un risultato. E le pressioni sul Qatar, finanziatore di Hamas, per concludere la mediazione sul rilascio dei prigionieri in cambio della fine delle ostilità poteva essere l'obiettivo. Ci avrebbe poi pensato Israele, con operazioni mirate, ad eliminare i protagonisti della carneficina del 7 ottobre.
Sbarcato a Tel Aviv, Joe Biden si è trovato precipitato in uno scenario assai diverso da quello che si era immaginato. Annullati i colloqui con i tre arabi, la pezza a colori di semplici telefonate con loro. E la constatazione di un pianeta, non solo di una regione, nettamente spaccato in due, nella riproposizione anche fisica del dualismo contemporaneo tra democrazie e dittature. Vladimir Putin e Xi Jinping, i grandi antagonisti, insieme a Pechino in una “crescente fiducia reciproca”, pronti a “una cooperazione equa e reciprocamente vantaggiosa”, dubbiosi (eufemismo) sulla versione israeliana circa l'ospedale di Gaza, vicini alle ragioni di Hamas, dell'Iran e delle piazze arabe. E inoltre: i ministri degli Esteri di Arabia Saudita e Iran a colloquio dopo il quale i sauditi hanno chiesto ai loro concittadini di lasciare il Libano. Inquietante segnale che potrebbe indicare la volontà degli ayatollah di dare luce verde agli Hezbollah libanesi di attaccare Israele dal fronte Nord.
Che la Terrasanta potesse generare la scintilla capace di infiammare l'intero Medioriente e oltre era ed è a maggior ragione ora una preoccupazione fondata. Per parafrasare il famoso detto, una bomba a Gaza può far crollare il già precario ordine mondiale.
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