La decisione gravissima della rettrice di impiegare la forza per sgomberare l’accampamento pro Palestina degli studenti ha acquisito un valore paradigmatico. L’università non è un’istituto bancario, ma La rettrice ha agito come se lo fosse: come un amministratore delegato che deve portare a casa il risultato
Tra parola e violenza non c’è continuità. Questo iato è stato ignorato nella gestione delle contestazioni nei campus americani. I campus privati non consentono a nessun’autorità esterna di decidere di impiegare le forze dell’ordine. È la dirigenza dell’ateneo a richiederne eventualmente l’intervento.
Columbia University lo ha fatto nel 1968, quando gli studenti contestarono l’invio di nuove truppe in Vietnam e più in generale la guerra; occuparono diversi dipartimenti e il rettorato, con dentro professori e personale amministrativo.
La relazione tra studenti e corpo docente fu difficile, tanto che molti insegnanti si trasferirono in altre università. Columbia conobbe diversi anni di declino. Difficile prevedere gli effetti degli eventi di questa primavera.
Anche oggi il tema è la guerra, benché nessuno rischi oggi, come allora, l’arruolamento. Ma un’altra differenza spicca: non c’è dissociazione tra docenti e studenti; non perché tutte e due le parti abbiamo le stesse idee sulla questione palestinese. Né gli uni né gli altri sono, del resto, gruppi monolitici.
Ma le differenze non scalfiscono l’unione di fronte al fatto gravissimo della decisione della rettrice di impiegare la forza per interrompere la parola. Questo è il semplice fatto che rende unico questo momento, non solo a Columbia, è vero, ma in questo ateneo ha acquisito un valore paradigmatico.
Al ritorno dall’audizione al Congresso sulla task force contro l’antisemitismo, la rettrice ha deciso di chiamare la polizia di New York per fare arrestare i campeggiatori (pochissime tende e pochissimi ragazzi) su uno dei due prati davanti alla biblioteca; una contestazione simbolica di una piccolissima minoranza.
Quel che unisce docenti e studenti è proprio questa gestione, decisa in dispregio delle norme e senza consultare il Senato accademico: un’azione di arbitrio che ha fatto da collante tra docenti e studenti. L’università non è un’istituto bancario. La rettrice ha agito come se lo fosse: come un amministratore delegato che deve portare a casa il risultato.
Il fatto è che i suoi committenti non sono solo gli stakeholder ma prima di tutto i docenti e gli studenti e la vita accademica nel suo complesso.
Tutto questo è saltato quando la rettrice ha deciso di interrompere le parole con la forza. Tutti sono stati trattati come dominati, docenti e studenti.
Ha scritto l’economista Branko Milanovic che i rettori dei campus privati come la rettrice di Columbia non hanno fatto errori, ma hanno interpretato al meglio il loro ruolo che non è quello tradizionalmente inteso, ovvero come cercare di impartire alle giovani generazioni valori di libertà, moralità, responsabilità, abnegazione, empatia o qualsiasi altra cosa sia considerata desiderabile.
«Oggi il loro ruolo è quello di essere gli amministratori delegati di fabbriche che si chiamano università. Queste fabbriche hanno una materia prima che si chiama studenti e che trasformano, a intervalli annuali regolari, in laureati. Di conseguenza, qualsiasi perturbazione del processo produttivo è come una perturbazione di una catena di approvvigionamento. Deve essere eliminata il prima possibile, affinché la produzione possa riprendere. Gli studenti laureati devono essere "espulsi", i nuovi studenti devono essere introdotti, i soldi devono essere intascati, devono essere trovati donatori, devono essere assicurati altri fondi. Gli studenti, se interferiscono con il processo, devono essere disciplinati, se necessario con la forza. Bisogna far intervenire la polizia e ristabilire l'ordine».
Gli eventi nei campus americani sono un esempio di come la governability sia indifferente al pluralismo dei valori e all’interesse degli atenei – Columbia ha proprio ora deciso di annullare la tradizionale cerimonia di consegna dei diplomi.
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