Se Biden, figura di altri tempi, vince, dovrà traghettare il partito verso una America nuova per profilo socio-demografico, domanda di protezione sociale, risposta alla crisi climatica, superamento del razzismo strutturale, e altri temi che chiedono nuova rappresentanza
- I repubblicani possono provare a vincere le elezioni pur avendo ottenuto la maggioranza del voto popolare una sola volta dal 1992 a oggi, ovvero nel 2004 (elezione di secondo mandato di George W. Bush).
- I democratici, pur maggioranza permanente nel paese, hanno contro il sistema elettorale e gli ostacoli messi dai repubblicani all’esercizio del voto delle minoranze.
- Il candidato dem è uomo del passato ma ha il compito di guidare il partito – e se vince, gli Usa – verso una transizione a una America nuova, sia dal punto di vista sociodemografico che delle questioni da affrontare.
In questo voto i democratici si giocano il futuro, nonostante siano maggioranza permanente nel paese. Non possono essere maggioranza presidenziale per un vulnus democratico: la Costituzione prevede che a eleggere il presidente sia la maggioranza dei Grandi elettori, con un meccanismo che assegna a ogni stato un “punteggio”; si arriva alla presidenza se si ottengono 270 Grandi elettori (un voto indiretto). Col sistema maggioritario del winner takes all basta un voto in più per assegnare la posta di tutto lo stato (tranne in Maine e Nebraska) a un candidato.In virtù di questo gioco machiavellico, i repubblicani possono provare a vincere le elezioni pur avendo ottenuto la maggioranza del voto popolare una sola volta dal 1992 a oggi, ovvero nel 2004 (elezione di secondo mandato di George W. Bush). Il sistema nasce per lasciare alle élite di un paese che sperimentava la trasformazione in repubblica democratica, la possibilità di rovesciare il voto popolare se esso fosse caduto in una trappola, ovvero concedere consenso a un demagogo che avrebbe potuto far risorgere l’ombra della tirannia. E poi si voleva evitare che gli stati del sud, meno popolosi, subissero il dominio elettorale del nord.
L’emendamento impossibile
Le conseguenze non intenzionali di quella scelta sono che, oggi, questo meccanismo favorisce il partito repubblicano in modo strutturale e non impedisce ai demagoghi di prendere il potere: servirebbe un emendamento costituzionale per modificare questa stortura, ma l‘ipotesi è impraticabile. Per approvare un emendamento costituzionale serve un larghissimo consenso al Congresso e in seconda battuta nei singoli Stati, e oggi non è nemmeno pensabile (non a caso, in un Paese così polarizzato, non si approva un emendamento dal 1992).
Questo per mettere in evidenza due aspetti. Primo, la maggioranza democratica deve fare una fatica doppia per affermarsi, il che sconcerta: non solo combatte contro la realtà del sistema elettorale, ma anche contro quella del cattivo funzionamento dei sistemi elettorali locali, poiché negli stati repubblicani vengono adottati regolamenti e strumenti “tecnici” (per esempio la distribuzione fisica dei seggi nelle contee) che ostacolano l’esercizio del voto, in particolare delle minoranze, schierate massicciamente coi dem. Secondo, quando si celebra la magia trumpiana del presidente che risveglia “l’America profonda” e sconfigge il drago delle élite cosmopolite e corrotte del partito democratico, si sopravvaluta una buona strategia politica basata sullo sfruttamento della realtà dei Grandi elettori, che però non ha trasformato il segno della realtà elettorale del partito repubblicano, ormai minoranza permanente nel paese.
La grande tenda dem
Certo, il partito democratico ha costruito una “grande tenda” - un’alleanza elettorale composita che va dal ceto medio delle metropoli ai chicanos sindacalizzati delle campagne della California, passando per movimenti, donne, minoranze, ma anche moderati e conservatori – che presenta un’eterogeneità difficile da sintetizzare con un solo candidato. E spesso difficile da mobilitare: alcune constituencies del partito sono fra i segmenti di elettorato che votano meno - le minoranze e i giovani, per esempio - e per i quali serve uno sforzo organizzativo ulteriore (pure per garantire materialmente l’esercizio del diritto di voto).“Allargare la tenda” ha creato problemi politici per i democratici, ma si tratta di una scelta compiuta nel lontano 1972 (quando i democratici conobbero una sconfitta epocale contro Richard Nixon) e che ha a che fare con il cambiamento di pelle seguito al sostegno politico-istituzionale al movimento dei diritti civili, ai processi di laicizzazione della società, allo spostamento “a sinistra” sulle questioni legate all’espansione del welfare e della protezione sociale (anche lì, si tornava implicitamente al tema della razza: allargare i diritti sociali, spesso, significava redistribuire denaro pubblico in forma di sussidi e servizi alla popolazione afroamericana, con grande disappunto di porzioni di elettorato bianco, anche democratico).
Dall’altra parte, il partito repubblicano perseguiva la svolta a destra (da Reagan in poi), la strategia di radicamento nel sud segregazionista - che aveva voltato le spalle ai democratici - e l’alleanza permanente con la destra evangelica. Il partito democratico attraversò quindi il suo deserto elettorale negli anni ’80, nell’epoca reaganiana; riconquistò la presidenza nel 1992, mantenendo posizioni piuttosto moderate in economia, sul welfare e sulle politiche di tolleranza zero adottate per reprimere il crimine; riattraversò un altro deserto con la vittoria di George W. Bush (quella del ri-conteggio dei voti in Florida) e trovò una nuova epifania nella vittoria di Barack Obama nel 2008. E poi la storia di oggi: il colpo di coda dei repubblicani, sempre più “partito dei bianchi”.
La “emerging coalition” immaginata dai democratici negli anni ’70 e teorizzata nei 2000 dagli strateghi del partito, ha presentato fragilità e subìto rovesci. Come renderla più stabile e foriera di vittorie? Domanda assillante dopo la sconfitta alle presidenziali del 2000, quando Al Gore vinse il voto popolare senza ottenere la maggioranza dei Grandi elettori; e poi dopo il voto del 2016. Ecco allora un candidato di compromesso, fra vecchia e nuova America e vecchie e nuove coalizioni: Joe Biden. Che deve essere votato negli stati che rappresentano il defunto primato industriale del paese, una cultura e un elettorato che indirizzavano il paese negli anni ’60, quelli della sua formazione politica. Un candidato pensato per riprendersi il Mid-West, perso di un soffio, sperando di sfondare nel Sud (dove i cambiamenti demografici, prima o poi, premieranno i dem).Il paradosso di oggi è che, se Biden vincesse, a traghettare il partito verso il futuro sarà una figura del passato, imposta un po’ dallo sbarramento a sinistra voluto contro Bernie Sanders e i suoi, ma anche dall’amara realtà del sistema elettorale (Biden conosce bene gli stati democratici cha la Clinton perse nel 2016). Diverrebbe presidente di transizione verso una America nuova per il profilo socio-demografico, la domanda di protezione sociale, risposta alla crisi climatica, giustizia fiscale, superamento del razzismo strutturale, e altri temi che chiedono nuova rappresentanza. Sui quali possono nascere conflitti seri anche dentro lo stesso partito.
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