- Illuminismo e tradizione spirituale sono la vera potenza che l’Europa non ricorda più d’avere – solo la voce del papa che la richiama alla sua missione di pace ce lo ricorda. È una “potenza spirituale” quella che genera critica e autocritica, memoria e pietà.
- I potenti della terra non fermeranno l’escalation perché non hanno altra lingua che quella della Realpolitik, che non ha memoria dei crimini nucleari con cui finì anche la guerra più “giusta”, e delle grandi occasioni perdute di realizzare davvero una società libera e pluralistica vincolata da valori universali.
- Risvegliarsi dal sonnambulismo e dai litigi del nostro pollaio politico richiede che alziamo il punto di vista sulla guerra e la pace. Così dobbiamo intendere e riempire le piazze della pace, che hanno solo il cielo sopra di loro. La potenza spirituale dell’Europa, ormai, o si risveglia in noi cittadini, o perisce.
«La guerra non cesserà mai se non si afferra il ramo di palma che solo una potenza spirituale può porgere. Sangue scorrerà sull’Europa finché le nazioni non si accorgeranno di quella loro terribile follia che le fa muovere in un circolo vizioso». Lo scriveva Novalis (alias Friedrich von Hardenberg, 1772-1801) al volgere del secolo dei Lumi, nel 1799.
Non aveva nemmeno trent’anni, e sarebbe morto senza compierli: ma lo pseudonimo che si era dato, e che richiama nuove terre ancora da dissodare, oggi ci pare perfetto per il ragazzo visionario della primavera romantica di Jena. Quel suo saggio, La cristianità o l’Europa, che in altre stagioni avremmo letto con tutta la diffidenza che ogni ostinato illuminista prova per la nostalgia romantica, oggi viene illuminato dalla voce di questo papa che si ostina a manifestare una volontà di pacificazione in nome della giustizia e della pietà (non di un deserto chiamato pace, non di una pace a qualunque condizione).
Guardava avanti e non indietro, il ragazzo di Jena. Perché evidentemente bisogna alzare il punto di vista da cui si guarda il mondo, per vedere ciò che i poveri di spirito vedono benissimo, e i potenti della terra no. Solo questo significa “una potenza spirituale”, per quel ragazzo visionario che volava già oltre l’epopea prima liberatrice e poi truce e sanguinaria delle nazioni. Era già più vicino all’“Europa ovvero filosofia” dei grandi visionari del secolo scorso, quelli che per “Europa” intendevano non un continente ma un’idea.
Europa come civiltà che si dissemina, fondata sull’umanesimo e la ragione pratica, capace di rinunciare a ogni radice identitaria pur di accoglierle tutte entro i vincoli del diritto e dei diritti umani. Certo, era necessario a questo scopo smantellare, di questa stirpe che siamo di rane pensanti e gracidanti intorno allo stagno del Mediterraneo (Platone), tutta la millenaria superbia, e denunciare tutta l’inumana ferocia dispiegata nei secoli della modernità, fra le dichiarazioni dei valori più universali e le immense rapine coloniali.
Denunciare l’enorme contraddizione fra i principi e le azioni, come i philosophes, gli artisti, i pensatori hanno sempre fatto, da Bologna a Oxford, da Salamanca a Heidelberg, da Parigi a New York: e più intensamente negli ultimi tre quarti di secolo.
Questo e nient’altro è una “potenza spirituale”, quella che genera costantemente, insieme, critica, pensiero e pietà. Bulgakov – il grande ucraino di lingua russa, uno dei più illuminati scrittori del Novecento, lo vide con gli occhi sghembi del suo Mefisto, Woland, che di spirito ne ha parecchio: vide Ponzio Pilato, lo scettico e tormentato quinto procuratore della Giudea, che da duemila anni si sveglia ogni notte di luna piena con l’emicrania, e disperatamente anela a continuare quella conversazione sulla verità cominciata con Yeshua Ha-Nosri, il pazzo e mite “filosofo” condannato a morte dalla folla inferocita, il giorno 14 del mese primaverile di Nizan.
Sì, il tema è questo. Il dono di grazia, simile al volo più alto dell’aquila, che chiamiamo “spirito”, senza il quale continueremo a ribattere il nostro piccolo punto di vista, gli uni contro gli altri, come galline che si contendono un chicco di grano, come se la minaccia enorme che si profila per la razza umana fosse trascurabile. Come se non la vedessimo proprio.
Forse siamo già, come le galline di fronte al faro dell’auto nella notte, immobili, lo sguardo fisso e accecato. È in corso un’escalation che rimbalza dall’uno all’altro capo della terra, apre all’ipotesi nucleare, la frammenta in “tattica” e “strategica”, la banalizza, la rimuove.
Fino a pochi giorni fa di questa possibile escalation nucleare non si parlava proprio. Abbiamo dovuto attendere che il presidente statunitense citasse l’Apocalisse per accorgercene, o meglio perché anche i media e la grande stampa spostassero sotto la luce del riflettore questo pensiero rimosso.
Einstein, forse per sventare la sciagurata immagine dello scontro decisivo fra il Bene e il Male che l’Armageddon evoca (soprattutto nei paesi protestanti) lo aveva riassunto nell’immagine meschina della trappola per topi che l’umanità tende a sé stessa – e nessun topo tenderebbe ai topi. Come uscire dalla trappola?
Le occasioni perdute
«Se esistessero guerre “giuste”, in generale, quella contro il nazismo sarebbe indubbiamente una di quelle. Tuttavia, spesso, era condotta con mezzi criminali. Il ricordo più nitido che conservo è quello dei ragazzi caduti rimasti per sempre nelle paludi, spesso a causa dell’idiozia dei loro comandanti». Lo scrive Aleksandr Jakovlev, uno dei più stretti collaboratori di Gorbaciov e il cosiddetto padre della glasnost (trasparenza), in un libro di ammirevole sincerità – La Russia. Il vortice della memoria (2000, trad. it. Spirali 2021).
Quella guerra finì con un atto criminale – lo sterminio nucleare della popolazione civile di Hiroshima e Nagasaki – che forse più di ogni altro indusse nell’umanità occidentale un sussulto di ragione grandioso, degno delle promesse dell’Europa dei lumi.
Anche negli anni Venti ce ne era stato uno simile: niente ha promosso, a livello planetario, un’esigenza di rinnovamento pratico della vita associata, a partire dal rinnovamento anche teorico delle categorie per comprenderla, quanto le guerre mondiali del XX secolo, o se si vuole la lunga “guerra civile europea 1914-1918”.
La prima volta però il rinnovamento essenziale, quello necessario a dare un senso al grido tante volte ripetuto dopo le guerre – “mai più” – non ci fu, o meglio non arrivò al passo decisivo: farla finita con la selva geopolitica degli equilibri di potenza, costruire la “federazione mondiale di repubbliche” di kantiana memoria. Ci furono grandiose promesse non mantenute. E la seconda? Molto fu fatto. E certamente non solo da “noi” – dal cosiddetto occidente.
Nel Dopoguerra si incarnarono nelle grandi istituzioni sovranazionali, dall’Onu agli embrioni di una Unione politica europea, e soprattutto nei loro grandi documenti normativi, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani in poi – i mezzi per il fine della ragione pratica, la costruzione di una società libera e radicalmente pluralistica ma fondata sul riconoscimento comune del solo vincolo dei valori universali. Ma da dove, da chi venne l’impulso vero alla fine del male che oscurava e tradiva questo fine, la Guerra fredda? Abbiamo già avuto occasione di ricordare la grandezza del sogno paneuropeo di Gorbaciov, l’inseparabiltà che egli aveva visto fra la grande riforma democratica delle menti in patria e la costruzione di un nuovo ordine mondiale, davvero universalistico e non unipolare, che in una Federazione europea comprensiva dell’intera cintura occidentale dell’ex impero sovietico, e in prospettiva della stessa Russia, avrebbe trovato la fonte di una pace vera e duratura; di vedere in questo universalismo eurocentrato quasi un simbolico passaggio di testimone fra il più grande e ignorato artefice dell’unità europea, Altiero Spinelli, e l’uomo che a sé stesso e al suo potere preferì la coerenza con il ripudio della Realpolitik e la fiducia nei leader occidentali che parevano aver compreso la grandezza ideale della posta in gioco. Quella fiducia fu brutalmente, immediatamente tradita.
Su Scenari il giovane storico Andrea Borelli ha aggiunto illuminanti dettagli relativi alla posizione della Germania in questo tradimento che già conosciamo dai documenti declassificati sulla promessa fatta dal segretario di Stato americano James Baker a Gorbačëv a proposito della non espansione della Nato oltre il confine tedesco (“not one inch eastward”): cui seguì un profluvio di conferme verbali sul rispetto della “sicurezza” russa. E oggi a Kaliningrad, accanto alla tomba di Kant, sono pronti i missili Iskander con capacità nucleare, mentre Putin annuncia di peggio per la fine dell’anno, il supermissile balistico intercontinentale Sarmat.
Le parole del risveglio
Eppure già negli anni Venti del secolo scorso il grande sogno illuministico si era riacceso nella lingua della filosofia, dalla Moravia di Husserl e di Masaryk alla Renania di Max Scheler. Le parole tedesche Erneuerung, Reue, Wiedergeburt, Wiederaufbau: rispettivamente, rinnovamento, pentimento, rinascita, ricostruzione, cominciarono allora a disseminare negli spiriti migliori la visione di un ordine del mondo che le guerre le avrebbe dovute semplicemente sradicare dalla civiltà umana.
Ma guardatele, quelle parole. Affondano nella più pura tradizione spirituale, e non solo cristiana: dicono l’uomo vecchio e l’uomo nuovo, il risveglio, l’uscita dalla caverna. Dicono la scommessa migliore dell’uomo su se stesso: che saremo capaci di accogliere e rispettare il dono dei vincoli – vincoli di logica, di senso, di etica, di legge, vincoli di giustizia e di pietà. Il dono che sempre, quando sventura o gioia “disarmano” la feroce sentinella dell’io, ci chiede d’essere riconosciuto e accolto, come il fatto che due più due fa quattro e il fatto che la guerra è il male intrinseco per contenere il quale la belva umana incivilisce. Vincoli dati – anche se non imposti alla nostra libertà. Verità, scoperte: non invenzioni, costruzioni, postulati. Le riscopriamo in quei momenti che Stefan Zweig chiamava Sternstunde der Menscheit, ore stellari dell’umanità. Un titolo assurdamente tradotto, nell’edizione italiana Adelphi, in Momenti fatali, un’espressione che riesce a ignorare insieme la libertà e le stelle: la libertà umana come appare in quei momenti decisivi che chiamiamo kairoi, in cui ad essere in questione è la nostra umanità; e le stelle, metafora dei valori universalmente lucenti, che conferiscono a queste azioni una sorta di eternità simbolica. Insomma, «la legge morale in me e il cielo stellato sopra di me», iscritti sulla tomba di Kant.
Appunto. Senza il respiro dell’alto non c’è mai rinnovamento della civiltà, perché non c’è rinnovamento della mente – e viceversa. Era questa, la lezione di Kaliningrad. La democrazia muore asfissiata nel conflitto degli interessi economici e nazionali, smette di motivare la giovinezza, e perde la sua essenza, che è di rinnovarsi ogni giorno dalle sue fonti etiche: non c’è speranza di futuro senza respiro dell’alto.
Oggi però non sembra che i potenti del mondo siano disposti a spostare più in alto il loro punto di vista su questo indicibile che minaccia addirittura la vita dell’umanità in terra, e in primis e concretamente di quella europea, perché gli arsenali russi e quelli americani sono qui, sotto le nostre case. E quindi non resta che provare a noi a sollevarlo all’altezza dello spirito, questo punto di vista: uscendo sulle piazze, che hanno solo il cielo sopra di sé. A chiedere pace, ma una pace alta e vera e carica di futuro, cioè nutrita di memoria, critica, giustizia – e pietà.
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