Alla “conferenza di alto livello sulla pace”, prevista il 15 e 16 giugno in Svizzera, mancherà l’invasore russo. Assenti anche Biden, la Cina e i rappresentati dei paesi del Sud globale. Il rischio è che la foto finale di gruppo lasci intendere l’isolamento politico della proposta ucraina di pace
Se dal punto di vista meteorologico le temperature estive non sono ancora in aumento, sul piano politico il mese di giugno è denso di appuntamenti politici che surriscaldano la politica internazionale.
Dopo il summit G7 in Puglia di questi giorni, dove il presidente americano Joe Biden e il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky firmeranno un accordo bilaterale di sicurezza che sembrerebbe escludere, almeno nel medio periodo, l’inclusione dell’Ucraina nella Nato, l’attenzione sarà rivolta alla conclusione dei lavori della “Conferenza di alto livello sulla pace”, prevista il 15 e 16 giugno in Svizzera.
Si tratta, però, di un consesso dove non solo manca l’invasore russo con il quale bisognerebbe negoziare, ma vi sono anche “importanti” assenze, come quella del presidente Biden, impegnato nella campagna elettorale e sostituito dalla vice Kamala Harris, come le autorità di alcuni paesi appartenenti al Sud globale (Pakistan, Brasile, Arabia Saudita), e, soprattutto, non ci sarà la Cina, che, sin dall’annuncio di questa iniziativa, ha sostenuto che non ha senso se non partecipa anche la Russia.
Quest’ultima, nelle parole del ministro degli Affari esteri, Sergej Lavrov, ha affermato che la Svizzera ormai ha dimostrato di avere una posizione unilaterale e che la Russia è trattata come «un cattivo studente. Gli insegnanti si riuniscono, ci mettono fuori, decidono tutto tra loro, poi ci chiamano e annunciano il verdetto».
Gli obiettivi del Cremlino sono chiari: delegittimare la Svizzera nella sua “storica” neutralità per spostare il baricentro delle trattative di pace dall’Europa alla Cina che, nel maggio scorso, ha proposto congiuntamente con il Brasile di organizzare una conferenza «con una partecipazione paritaria di tutte le parti e una discussione equa di tutti i piani di pace», e, soprattutto, indebolire l’immagine di Zelensky. Di 160 delegazioni invitate, sinora hanno risposto solo 90 tra cui si notano le assenze di leader politici “di peso”.
Ne è consapevole lo stesso Zelensky, che ha espresso la propria delusione per l’assenza del presidente Biden, definendola come un regalo al presidente russo Vladimir Putin. Grande esperto di comunicazione politica, Zelensky sa, infatti, quanto sia importante diffondere il messaggio, anche simbolico, che un ampio numero di paesi sono dalla sua parte. Il rischio è, invece, che la foto finale di gruppo lasci intendere l’isolamento politico della proposta ucraina di pace.
Dalla “debole” reazione dei paesi del Sud globale, dei Brics e della Cina per l’evento svizzero, la Russia sembra, invece, uscirne rafforzata: l’isolamento della Russia, così tanto annunciato e auspicato dai paesi del mondo occidentale, si traduce, in realtà, in una nuova cortina ad ovest, intenzionalmente innalzata dal Cremlino perché Putin scommette politicamente ed economicamente sul sostegno dei paesi del Sud globale, anche tra coloro che non si sono esposti pubblicamente a favore dell’invasione russa.
Dall’inizio della guerra in Ucraina, la Russia di Putin ha affrontato diverse situazioni che ne hanno minato la stabilità politica ed economica. Basti pensare al fallimento strategico della cosiddetta “operazione speciale militare”, alle difficoltà con la quale il Cremlino è riuscito a occupare/mantenere/annettere porzioni di territorio ucraino, solo grazie all’azione sul campo dei “mercenari di Wagner” oppure alla marcia su Mosca di Evgenij Prigožin e alle fibrillazioni economico-finanziarie. Tuttavia, il presidente Putin è riuscito a ridimensionare una posizione di debolezza e di progressivo sfaldamento della coesione interna al Cremlino attraverso l’eliminazione di avversari politici (Aleksej Navalnyi e Prigožin in primis) e avvicendamenti al potere come l’eclatante sostituzione del ministro della difesa, Sergej Šojgu, dopo la sua ennesima rielezione plebiscitaria.
Recentemente, Putin ha inserito il ministro della difesa Andrej Belousov, l’ex governatore di Tula Aleksej Djumin e l’ex governatore di Kaliningrad, Anton Alichanov, nelle commissioni militare industriale e per la cooperazione tecnico militare con l’estero e ha aggiunto Belousov come membro permanente del consiglio di sicurezza russo. Nella gestione del potere, Putin ha ridefinito l’organigramma dell’amministrazione presidenziale, spostato funzionari tra i vari dipartimenti e avviato una campagna anti corruzione nei confronti degli esponenti dell’apparato militare, rei dei gravi fallimenti della prima fase della guerra.
Senza entrare in collisione con il suo “intimo amico” Šojgu, il presidente russo ha inferto un colpo o, per meglio dire, una punizione alla fazione militare che evidenzia il predominio, invece, di quella dell’apparato di sicurezza Fsb (Federál’naja Služba Bezopásnosti Rossijskoj Federácii). E, molto probabilmente, la nomina alla difesa di un’economista come Belousov, che non proviene dalle forze militari, è anche un’ulteriore garanzia per scongiurare qualsiasi velleità di colpo di Stato ad opera di un’insoddisfatta élite militare.
In Ucraina, come afferma Zelensky, la Russia ha distrutto l’80 per cento della produzione di energia termica e un terzo di quella idroelettrica e l’azione militare si concentra nell’oblast di Donetsk con 2300 raid russi in 24 ore nel distretto di Pokrovsk dove le truppe russe avanzano per raggiungere “ad ogni costo” il villaggio di Chasiv Yar. L’offensiva russa è lenta e non ha prodotto significativi e importanti risultati sul piano strategico mentre l’esercito ucraino, in difficoltà nel reperire uomini e nella carenza di munizioni e armi specifiche, sta dimostrando, ancora una volta, un’incredibile resistenza, soprattutto in alcuni villaggi.
Le difficoltà economiche
Ma se il presidente Putin mantiene ancora saldamente il controllo politico dell’amministrazione presidenziale, riducendo i margini di scontro politico tra le élite, in questa fase della guerra è la situazione economica che desta una maggiore preoccupazione. La governatrice della Banca centrale russa, El’vira Nabiullina, ha allertato di un rischio di “surriscaldamento dell’economia russa”, con tensioni sul mercato del lavoro e tendenze all’aumento dell’inflazione che potrebbero richiedere un aumento di 1-2 punti del tasso di interesse, attestandosi al 18 per cento nei prossimi mesi.
In questi giorni, il segretario del Tesoro americano ha annunciato una nuova tornata di sanzioni contro 200 organizzazioni tra cui la Banca centrale e 30 persone fisiche per «ridurre le capacità di Mosca di accedere a tecnologie, attrezzature, software e servizi IT stranieri». E così la Banca centrale ha fatto sapere che «nel mercato dei cambi e dei metalli preziosi, le negoziazioni vengono eseguite con tutti gli strumenti, a eccezione delle coppie valutarie con il dollaro Usa e l’euro». Ancora una volta, la brillante governatrice Nabiullina ha evitato che le sanzioni rendano tecnicamente impossibile le operazioni di cambio in Borsa, facendo sì che più della metà degli scambi in valutano avvengano fuori dal mercato ufficiale con un volume di cambio sempre più favorevole allo yuan e riducendo gli scambi dollaro rublo dal 78 al 32 per cento dall’anno scorso.
In sostanza, come esprime il contenuto del comunicato stampa della Banca centrale: le nuove sanzioni americane «non hanno effetto sul volume dei guadagni in valuta straniera dalle esportazioni o sulla domanda di valuta straniera per le importazioni e le società e gli individui continueranno a comprare/vendere dollari ed euro presso le banche dove i fondi in queste valute straniere nei conti e depositi di cittadini e imprese rimangono sicuri». Se a ciò si unisce anche l’effetto positivo che l’economia di guerra sta avendo sulla resilienza del sistema economico russo, il tracollo economico ad opera delle sanzioni, ampiamente annunciato sin dai primi giorni della guerra, tarda ancora ad arrivare.
Tra vertici, conferenze e dichiarazioni dei leader, emerge, chiaramente che, per motivi diversi, nessuno degli attori principali ha interesse a trovare una soluzione definitiva in Ucraina in questo momento dove, al contrario, prevale la tensione tra la Russia, gli Stati Uniti e la Nato, come il via libera a Kiev all’uso di armi in territorio russo, l’arrivo della fregata russa “Admiral Gorškov” e del sottomarino Kazan nel porto della capitale cubana e l’affermazione di Putin che la dottrina nucleare russa è uno strumento “vivo”, quindi modificabile, dimostrano.
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