L’affidamento eccessivo di Israele sull’ apparato di sorveglianza tech ha fatto sottostimare alcuni pericoli. La situazione critica interna è stata un altro fattore. Lo stato ebraico inoltre teme i cyberattacchi russi
È considerato internazionalmente uno stato estremamente avanzato in termini di intelligence e tecnologie di sorveglianza. Da decenni è a capo di complesse operazioni di spionaggio e più recentemente è uno dei centri nevralgici dello sviluppo di spyware, software che silentemente penetrano all’interno degli smartphone trasformandoli in microfoni sempre accesi. È Israele, stato in cui è nata la società Intellexa che, insieme alla francese Nexa, è al centro dei Predator files.
L’inchiesta congiunta di Domani con altri partner internazionali ha rivelato come lo spyware Predator sia stato venduto grazie a un’alleanza tra le due società a Egitto, Vietnam e Madagascar per sorvegliare dissidenti e cittadini.
Israele è noto anche per monitorare Gaza e chiunque sia connesso ad Hamas attraverso tecnologie biometriche, come riportato dall’organizzazione Amnesty International alcuni mesi fa. Quella che la ong chiama «apartheid automatizzata» è condotta operativamente dalle autorità israeliane attraverso Red Wolf: un sistema di riconoscimento facciale che fa parte di una rete di sorveglianza in continua crescita presente nei posti di blocco militari nella città di Hebron (Cisgiordania), attraverso la quale i volti dei palestinesi vengono scansionati senza consenso e aggiunti a un database.
Eppure sabato 7 ottobre, l’attacco senza precedenti del gruppo Hamas contro Israele è stato sorprendente. L’invasione militare, si scopre dalle prime ricostruzioni, era preparata da un anno: il gruppo politico e paramilitare palestinese islamista si esercitava proiettando su Israele un’immagine diversa del proprio operato a Gaza.
Il sistema non ha retto
Secondo Reuters l’attacco è iniziato con una raffica di 3.000 razzi sparati dalla città di Gaza, accompagnato dall’incursione di mille combattenti oltre il confine. L’enorme quantità di missili inviati non ha probabilmente permesso a Iron Dome, il sistema di difesa terra-aria a corto raggio (70km) israeliano che intercetta razzi e veicoli aerei senza pilota (UAV) distruggendoli quando ancora in volo, di essere completamente efficace.
Poi c’è stato l’assalto al muro costruito dal governo israeliano per prevenire l’entrata nel paese. Il muro che divide Gaza da Israele è stato “inaugurato” alla fine del 2021 dopo tre anni e mezzo di lavori. Equipaggiato con sensori di movimento a terra, mitragliatrici azionate a distanza e grate alte sei metri, è il simbolo del confine più sorvegliato e fortificato al mondo. Un muro del valore di un miliardo di dollari, demolito sabato scorso dalle milizie di Hamas usando bulldozer.
La tecnologia non può mai fare tutto il lavoro. Una fonte all’interno dell’intelligence israeliana ha dichiarato a Reuters che le truppe israeliane di stanza al confine non erano al completo, perchè inviate in Cisgiordania a protezione dei coloni israeliani durante scontri con la popolazione palestinese. I servizi di intelligence, è bene ricordare, non sono mai onniscienti. Nemmeno quelli di Israele. Nonostante ciò la mancata previsione di ciò che stava succedendo ha sorpreso molti.
Bombardamenti e attacchi via aria, terra e mare, seguiti – come riporta New York Times – dall’invio di droni, relativamente economici e di piccola dimensione, con i quali Hamas ha disabilitato le stazioni di comunicazione e le torri di sorveglianza dell’esercito israeliano al confine. Una volta saltata la copertura tecnologica la strada per Hamas è stata in discesa.
Una tattica già vista nel conflitto russo-ucraino, e che ha compreso anche l’impiego di droni simili agli israeliani Skylark. Per superare il vantaggio tecnologico di Israele c’è voluto però anche altro.
Stando al racconto di quattro funzionari dell’intelligence di Tel Aviv (rimasti anonimi) al quotidiano, il fallimento nelle operazioni di prevenzione sarebbe da imputare all’incapacità di monitorare i canali di comunicazione utilizzati da Hamas e al raggruppamento di militari al comando nell’unica base al confine, quella invasa per prima.
Le falle
Ci sono poi anche altre due motivazioni, non di poco conto: Israele dipende troppo dalle tecnologie di sorveglianza al confine, e le comunicazioni tra i leader militari di Gaza su canali privati sono state prese da Israele come oro colato.
Ami Ayalon, ex direttore dell’agenzia di intelligence per gli affari interni Shin Bet, ha dichiarato al quotidiano francese Le Figaro che i servizi di difesa israeliani si basano ampiamente sull’intercettazione di segnali, inviati tra persone o tra sistemi elettronici.
Una strategia che non sembra funzionare contro Hamas. Il gruppo opererebbe, secondo quanto affermato dal politologo Mkhaimar Abusada a Politico, affidandosi molto di più a quella che in termini tecnici è chiamata human intelligence, ovvero la capacità di acquisire informazioni attraverso relazioni interpersonali e non grazie alla tecnologia.
Quest’ultima è infatti in grado di aprire la porta a un’enorme mole di dati e informazioni, di automatizzare un attacco o di monitorare un confine, ma è anche soggetta a possibile intercettazione, intrusione e depotenziamento da parte di attaccanti.
Tecnologie inevitabilmente meno moderne e intercettabili quelle di Hamas, come ad esempio il 2G, e che si basano su scarse risorse anche per via delle limitazioni e delle restrizioni imposte da Israele su Gaza.
Sembra un controsenso ma l’apparato di sorveglianza e di spionaggio messo in piedi da Israele negli ultimi decenni può aver avuto un ruolo nella mancata individuazione dei piani di attacco decisi da Hamas. In mezzo a moltissime minacce potenzialmente credibili, l’intelligence si può confondere e sottostimare intenzioni. Come riportato dal New York Times, i miliziani di Hamas erano sotto intercettazione ma le loro conversazioni non raccontavano di un possibile conflitto.
Per le forze israeliane l’attacco era inverosimile e il sistema di sorveglianza al confine ritenuto inespugnabile. Il mix di questi due aspetti ha orientato Israele verso un approccio tecnosoluzionista.
Audrey Kurth Cronin, direttrice del Carnegie Mellon Institute for Security and Technology ha parlato a Politico di tecnologia israeliana come «estremamente ammirata in tutto il mondo», aggiungendo però che «forse ciò che è successo è che gli israeliani sono diventati troppo dipendenti da quest’ultima e che dovrebbero semplicemente tornare a tecniche precedenti, infiltrandosi usando mezzi umani».
Secondo quanto riportato dal quotidiano Haaretz le manifestazioni interne al paese avvenute negli ultimi mesi contro la riforma giudiziaria avanzata dal vice primo ministro israeliano e dal ministro della giustizia, e appoggiata dal presidente Netanyahu, hanno portato alcuni ufficiali riservisti dell’unità informatica di élite del paese a rifiutare la chiamata.
Una situazione critica interna che, intrecciata alla crescente instabilità al confine col Libano, l’Iran e la Siria, ha gettato Israele nel caos.
L’allargamento del fronte
Per ora la più grande preoccupazione per Tel Aviv è forse quella di evitare che il conflitto derivante dall’invasione di Hamas si diffonda in Cisgiordania, e attiri i combattenti di Hezbollah al confine settentrionale con il Libano.
Una minaccia di guerra per Tel Aviv è arrivata nella giornata di domenica 8 ottobre anche dal gruppo Killnet, composto perlopiù da cyber criminali russi o filorussi, che ha rivendicato una serie di attacchi informatici alle autorità governative e alle testate israeliane. L’intenzione del gruppo è quella di sferrare attacchi denial-of-service distribuiti (DDoS), inondando i siti web di traffico e mandandoli offline.
Il giornale anglofono ucraino Kyiv Post ha condiviso domenica scorsa il messaggio pubblicato da Killnet su Telegram, indirizzato al governo israeliano: «Nel 2022 avete sostenuto il regime terroristico dell’Ucraina. Avete tradito la Russia. Oggi Killnet vi informa ufficialmente. Tutti i sistemi governativi israeliani saranno soggetti ai nostri attacchi».
I cybercriminali si sono dichiarati estranei al Cremlino, anche se da sempre il gruppo è considerato apertamente schierato con Putin.
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