Lo stallo nelle trattative per un cessate il fuoco a Gaza replica quanto già abbondantemente visto. Si perpetua una situazione senza sbocco per entrambe le parti. Lo stato ebraico rischia così di perdere un’occasione storica offerta dal nuovo quadro mediorientale
Ancora uno stallo nelle trattative per un cessate il fuoco della guerra di Gaza. Se poi di guerra si può effettivamente parlare di fronte ad una tale sproporzione di forze, che fa rassomigliare l’azione militare ad un massacro quotidiano senza scopo.
Il fallimento strategico di Israele si palesa nel momento in cui l’Idf è costretto periodicamente a tornare a combattere a Khan Younis e nel nord della Striscia, dove nuovi battaglioni di Hamas risorgono dalle ceneri come la fenice. Del resto l’esperienza globale dopo l’11 settembre lo aveva chiaramente mostrato: il terrorismo non si combatte con una guerra convenzionale.
Non solo perché, come si dice, questi gruppi fondamentalisti sono delle «idee»; come ne metti fuori gioco uno, ne risorge un altro, a volte senza nemmeno cambiare nome. Il fatto è che si tratta di formazioni ibride, che sono sia gruppi paramilitari che sistemi di welfare e di governo di un territorio.
Allora, l’insegnante che, magari, lavora in una scuola gestita da Hamas e che, di fatto, prende lo stipendio dal gruppo classificato da noi come terrorista, è un affiliato? Come ci si comporta di fronte a lui? E la famiglia costretta a vedersi costruire tunnel che passano sotto la propria casa
Naturalmente, ci sono anche adesioni consapevoli e supporto esplicito alla causa, come visto da quelle orrende scene di giubilo con cui si accoglievano i corpi martoriati delle vittime del 7 ottobre, ma, anche in questo caso, ha senso trattare dei semplici sostenitori alla stregua di miliziani? Insomma, troppo incerti i confini per costruire una strategia di guerra convenzionale.
Io credo che la risposta militare israeliana, una volta che ci si è accorti della valanga solo quando arrivata a valle, fosse inevitabile. Non reggono i paragoni con Monaco ’72 e nemmeno con l’11 settembre.
In questo caso si trattava di contrastare un gruppo militare localizzato, che lancia attacchi quotidiani alle porte di casa tua.Se si possono ignorare i missili in zone periferiche come Sderot o Ashkelon o in altri luoghi vicini alla Striscia, preferendo gestire un conflitto a bassa intensità piuttosto che drenare risorse e costi umani verso uno stato di guerra permanente, impossibile ignorare una minaccia simile a quella palesatasi con il 7 ottobre.
Evento, che anche io penso essere sfuggito di mano alla stessa organizzazione. Come già sottolineò il grande filosofo palestinese e esponente dell’Olp a Gerusalemme Est Seri Nusseibeh, certo non sospettabile di simpatie fondamentaliste.
C’è, però, modo e modo di rispondere. Anche se non c’è un modo pulito di condurre una guerra in quel ginepraio che è Gaza, Israele avrebbe dovuto circoscrivere degli obiettivi militari specifici, occupare delle roccaforti e collaborare con l’Egitto, ancor più preoccupato dello stato ebraico di infiltrazioni terroristiche, per il controllo del valico di Rafah, da dove è sempre entrato di tutto e di più.
E proprio qui sta il punto: la collaborazione col mondo arabo-sunnita, sfruttando il quadro del tutto inedito di un Medio Oriente che ha scelto l’Iran come maggiore minaccia, preferendole addirittura Israele. È noto: non è stato possibile per i condizionamenti che Netanyahu subisce dall’ala suprematista e anti-araba del suo governo, senza dubbio un inedito nella storia dello stato, proprio per la presenza della componente sionista-religiosa, che si sta rendendo colpevole anche di atroci violenze in Cisgiordania con la furia di chi pensa di sfruttare l’occasione per accaparrarsi quanto più possibile territorio. In vista di trattative future, o meno.
L’abbiamo scritto più volte: considerata l’involuzione enorme subita dal mondo palestinese negli ultimi venti o trent’anni, incapace di trovare anche una minima forma di rappresentanza comune e sprofondato in una terribile guerra fratricida, l’unica possibilità che l’eterno gioco del cerino a cui assomigliano queste trattative si sblocchi è la caduta dell’attuale governo israeliano.
Finché non cambia la situazione interna allo stato ebraico, risulta difficile immaginare una qualche forma di evoluzione. Saranno gli storici a comprendere perché un governo numericamente così debole possa resistere ad una simile pressione interna ed internazionale.
© Riproduzione riservata