La crisi del Covid e l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ci suggeriscono che l’ordine liberale post-1989 si sta sgretolando, nonostante nessuna nuova ideologia e nessun sistema alternativo abbia fino a questo momento sostituito il liberalismo. Viviamo ancora in un interregno. Secondo le parole di Antonio Gramsci, che ha coniato questa nozione nei Quaderni del carcere, «la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere». Né il populismo, né l’autoritarismo, né tantomeno le tendenze totalitarie di Cina e Russia sembrano destinati a diventare dominanti o egemonici. L’egemonia è d’altronde un’altra idea gramsciana, che invita a concepire il dominio politico come qualcosa che va al di là dello stato e del mercato e che si colloca nella sfera della cultura e della società. Quasi tutti i paesi occidentali lottano per definire un comune obiettivo nazionale, mentre scivolano ogni giorno di più nella polarizzazione politica e nelle guerre culturali legate alla politica dell’identità.

Come sosteneva Gramsci, l’interregno è un momento in cui la politica deve passare da una “guerra di movimento” a una “guerra di posizione”. Mentre la guerra di movimento viene combattuta in base ai termini esistenti del dibattito (che sono stati fino a questo momento i termini del liberalismo), la guerra di posizione è un conflitto sullo scopo stesso della politica e dunque sulla definizione di un nuovo ordine. Il Covid e l’Ucraina mostrano che tanto la politica interna quanto le relazioni internazionali si trovano oggi al centro di una guerra di posizione che può essere risolta solo grazie a una nuova filosofia pubblica e a un programma politico incentrato sul bene comune.

Fraternizzazione degli opposti

Prima di delineare una visione postliberale per lo scenario successivo al Covid e all’Ucraina, ha senso considerare la nostra condizione contemporanea rileggendo l’opera di Gramsci, e in particolare questa affermazione sorprendente: «In questo interregno […] si verificano fenomeni morbosi più svariati […] c’è una fraternizzazione degli opposti».

A partire da quest’ultimo passo, possiamo in effetti osservare come oggi varianti di liberalismo e autoritarismo (non solo in Cina, ma in modo sempre più pronunciato anche in tutto l’occidente) convergano, e persino collaborino tra loro, utilizzando le forze del capitalismo globale e della tecnologia con l’obiettivo di limitare le libertà civili, oltre che per estendere il controllo coercitivo e la sorveglianza dello stato.

In questo processo il liberalismo rivela il suo volto autoritario e si mostra illiberale, o addirittura antiliberale, promuovendo in modo crescente la libertà negativa (la libertà da qualsiasi restrizione che non sia la legge o la coscienza individuale) al punto da capovolgersi in una tirannia della scelta individuale, concepita come qualcosa di astratto rispetto a ogni vincolo relazionale di tipo familiare, comunitario o naturale. Dal momento che lasciare libertà di scelta comporta in realtà sempre la restrizione delle scelte di alcuni da parte delle scelte di altri, questa tendenza porta a nuove restrizioni draconiane alle libertà dei cittadini. Poiché i diritti e le libertà rivali si scontrano, il potere decide in modo tale che l’ultraliberismo produce un’oscillazione tra il disimpegno e il controllo (cfr. J. Milbank – A. Pabst, The Politics of Virtue: Post-liberalism and the Human Future, Rowman & Littlefield International, 2016).

Un altro esempio di fraternizzazione degli opposti è la fusione del populismo con la tecnocrazia. La fusione compiuta da Boris Johnson tra take back control e following the science suggerisce che tecnocrazia e populismo non sono solo diametralmente opposti, ma possono anche convergere in modi complessi. Entrambi si basano sul rifiuto delle élite vecchie e screditate che sono (viste come) corrotte e incompetenti, cioè in particolare contro i principali partiti politici di sinistra e di destra che hanno condiviso il potere dal 1945. Anche tecnocrati e populisti fanno appello al popolo come fonte di “saggezza collettiva” e sostegno a priorità politiche urgenti come la digitalizzazione o obiettivi ambiziosi per combattere il cambiamento climatico. Ma alla fine la pandemia di Covid ha messo in mostra l’incoerenza dei conservatori, in bilico tra istinti libertari e soluzioni stataliste, apparentemente impegnati a “seguire la scienza” ma disposti a infrangere le regole del lockdown, ostili alla devolution a favore dei governi locali, ma centralisti incompetenti, impegnati a invocare la “volontà del popolo”, senza però promuovere una solidarietà comunitaria.

Il Movimento 5 stelle italiano rappresenta un’altra versione di come populismo e tecnocrazia possono convergere. Cresciuto dopo la caduta del governo Berlusconi, il movimento era sorto dal rifiuto della classe politica italiana e dal sostegno a favore di una democrazia diretta e di una partecipazione dei cittadini al processo decisionale, combinando un’ampia mobilitazione online con il perseguimento di obiettivi politici “tecnocratici”, relativi alla connettività di internet, alla protezione ecologica e alla sostenibilità dello sviluppo, all’acqua e ai trasporti. La chiave di queste priorità politiche era proprio internet, mentre la connettività digitale era il luogo privilegiato in cui la “saggezza delle folle” poteva contribuire a migliorare le politiche. Suggerendo che ogni cittadino poteva essere un esperto nell’uso di internet, la democrazia diretta digitale fondeva così la tecnocrazia con il populismo.

Decadenza sostenibile

Come nella visione gramsciana dei “fenomeni morbosi”, è difficile non notare il decadimento che ci circonda. Lungi dal moraleggiare su individui o società, il punto è che l’occidente sta erodendo le proprie migliori tradizioni di dignità della persona, l’equilibrio tra diritti e doveri, nonché un sistema di stati e mercati incardinati in relazioni e istituzioni al servizio del bene comune, definito dal connubio tra appagamento individuale e arricchimento reciproco. Ma ciò non segna necessariamente il crollo dell’occidente e l’ascesa del resto del mondo. L’ordine liberale occidentale probabilmente continuerà a vacillare: sclerotizzato ma stoico, decadente ma duraturo, inerte, senza reali riforme ma anche senza un completo collasso.

«Questo potrebbe essere il destino dell’ordine liberale nelle prossime generazioni», ha scritto l’editorialista americano Ross Douthat, «una sorta di decadenza sostenibile, un’esistenza da zombie scandita da periodi di crisi temporanea e di allarme che continua all’infinito» («New Statesman», 20-26 marzo 2020). Con lo svolgersi del cataclisma economico postvirale, l’occidente liberale sembra assomigliare a un “morto vivente”: un morto non torna in vita ma si rifiuta ugualmente di morire. Sembriamo cioè abitare un interregno che assume la forma di un’esistenza da zombie.

Il momento comunitario del Covid

Eppure, per un breve momento nel 2020, era sembrato che il lungo interregno iniziato con il crollo finanziario del 2008 potesse finalmente finire. Dopo anni di austerità e rabbia, la pandemia di Covid-19 ha unito le persone grazie ad atti di tranquilla generosità. La nostra politica polarizzata ha lasciato il posto all’unità nazionale nel momento in cui abbiamo riscoperto un senso di scopo condiviso: agire in solidarietà per rallentare il tasso di infezione e salvare vite umane. Nei quartieri e in tutte le nazioni, le persone si sono offerte volontariamente per fornire cibo e medicinali ai più vulnerabili e a coloro che vivevano in povertà o solitudine. La crisi del Coronavirus ha fatto emergere il grande spirito umano di fraternità e gentilezza. La nostra risposta durante il primo lockdown di marzo 2020 è stata un momento comunitario. Ma si è rivelata un’alba illusoria.

I vincitori del lockdown sono risultati essere oligarchi della tecnologia come Amazon, Google o la cinese Alibaba, mentre le aziende a conduzione familiare hanno chiuso e i negozi dei centri urbani sono stati sbarrati con le assi. Dopo un breve periodo di compassione e comunità, l’ipercapitalismo e le politiche identitarie estremiste sono tornati con uno spirito di vendetta. Entrambi stanno distruggendo le basi di una vita comune condivisa tra età e classi (cfr. A. Case - A. Deaton, Deaths of Despair and the Future of Capitalism, Princeton University Press, 2020).

Una “nuova normalità”

Ciò che verrà dopo sarà diverso da ciò che è venuto prima, ma la “nuova normalità” è in gran parte un’intensificazione delle forze che dominavano il vecchio status quo: capitalismo, nazionalismo e tecnocrazia. Invece di risolvere l’interregno, la politica sembra intrappolata in un vicolo cieco. In tutto l’occidente, la vecchia opposizione sinistra vs. destra è stata soppiantata da una nuova polarità liberalismo vs. populismo, ma nessuno dei nuovi schieramenti sembra essere in grado di definire una nuova posizione, se non in modo negativo e demonizzando l’avversario.

La situazione di stallo tra il vecchio establishment e le nuove élite ribelli lascia poco spazio a una leadership decente o a una vera democrazia (cfr. M. Lind, The New Class War: Saving Democracy from the Metropolitan Elite, Atlantic, 2020). In Cina e nel rising rest, il dominio autoritario del partito unico sta fondendo il capitalismo di stato con il nazionalismo in modalità che negano le libertà fondamentali e reprimono i movimenti democratici. In risposta a un ordine liberale paralizzato e a un occidente diviso, gli sfidanti in Eurasia si descrivono come stati pacifici e civili che combinano una civiltà preliberale con la moderna statualità.

In realtà, leadership autoritarie seminano discordia in patria e all’estero e conducono campagne brutali contro nemici interni o esterni (come gli uiguri o gli ucraini), travestendo da forza la loro demagogia, comparata alla debolezza liberaldemocratica.

Bloccata in una lotta nazionale e globale, nessuna delle tre ideologie dominanti sembra destinata a diventare egemonica: il liberalismo non muore né si rinnova, il populismo è efficace nell’espellere i liberali dal potere, ma al potere equivale a poco più di un volontarismo compiaciuto; l’autoritarismo deride la democrazia occidentale senza offrire alcuna valida alternativa a lungo termine alle sfide del mondo contemporaneo. La pandemia di Covid-19 è un bivio: un momento in cui è necessario decidere tra i percorsi compiuti e le prospettive ignorate. Possiamo o tornare all’individualismo liberale, scivolare sempre più nel populismo demagogico, o accelerare verso il controllo autoritario.

In alternativa, potremmo costruire una politica sulle cose che contano per la maggior parte delle persone: le loro famiglie e amici; i luoghi in cui vivono e lavorano; le relazioni di supporto e le comunità che le sostengono; le istituzioni che forniscono sicurezza. La chiave di questa concezione della politica è l’idea che siamo esseri incarnati che prosperano quando siamo inseriti in relazioni interpersonali e in istituzioni che ci danno tanto significato quanto capacità di agire. Questa politica è postliberale e comunitaria, dal momento che evita gli eccessi del liberalismo senza cedere agli errori del populismo o alle oligarchie dell’autoritarismo.

Che cos’è il postliberalismo

La politica postliberale che sostengo non è enfaticamente antiliberale. Piuttosto, inizia con la constatazione dei limiti del progetto liberale: il danno fatto dall’individualismo; la riduzione della libertà alla semplice rimozione dei vincoli alle scelte private; la disconnessione dei diritti individuali dagli obblighi reciproci; l’erosione delle istituzioni intermedie da parte dell’azione combinata del libero mercato e dello stato centralista; il disordine globale fondato sulla coercizione, sul deficit commerciale e la guerra permanente. Al contrario, il postliberalismo vede gli esseri umani come esseri relazionali e la libertà come un equilibrio tra autonomia e autocontrollo. I diritti non sono solo indissociabili dai doveri ma anche inefficaci senza di essi. Gli stati e i mercati generano prosperità condivisa insieme alla coesione sociale solo quando sono incorporati in solide istituzioni civiche e in strutture di auto-aiuto che sostengono un senso di appartenenza.

Un autentico ordine internazionale richiede una cooperazione tra nazioni e popoli ancorati a legami sociali e culturali, commercio equo e moderazione militare. L’interesse nazionale si intreccia con la solidarietà internazionale. La politica postliberale promuove una visione internazionalista ancorata alle nazioni e alle istituzioni civiche come alternativa costruttiva al globalismo e al nazionalismo: un ordine internazionale fondato sulla creazione di fiducia e amicizia piuttosto che sul calcolo dell’interesse individuale.

Un nuovo consenso popolare è necessario per superare l’interregno, il periodo tra l’accordo precedente e quello successivo. La vecchia egemonia del liberalismo è finita ma non è stata ancora sostituita da una nuova visione del mondo. Per ottenere il sostegno della maggioranza, la politica deve partire da ciò che la maggior parte delle persone apprezza: famiglia, amicizia, località, comunità e paese. La ragionevole speranza di un futuro migliore deve essere radicata in modi di vita che implicano un senso di sacrificio e di contributo al bene comune.

Si tratta di amare la libertà, i luoghi e le comunità concrete in cui le persone vivono. Tutti questi valori poggiano sulla solidarietà vissuta: relazioni in cui si dà e si riceve, che danno senso alla nostra quotidianità. A meno che non si rinnovi dalle fondamenta, il liberalismo non è in grado di preservare i valori fondamentali della liberalità – equità, generosità, tolleranza, difesa della libertà di parola – che ha ereditato dall’Antichità e dal Medioevo ma che non ha inventato. Una difesa della liberalità richiede il ripristino di tradizioni etiche dimenticate dal liberalismo: la dignità della persona e del lavoro, il bene comune, le virtù che sostengono la realizzazione individuale e il fiorire reciproco degli individui.

Lungi dall’essere astratti, questi sono principi incorporati nelle pratiche (cfr. A. MacIntyre, After Virtue: A Study in Moral Theory, Duckworth, 20073). Ciò richiama la definizione aristotelica della politica come phronesis, o saggezza pratica: un’arte etica che lega l’intenzione umana all’abilità virtuosa. Lo scopo delle relazioni sociali ed economiche non è tanto la soddisfazione delle preferenze private, ma il servizio del bene pubblico assieme a tutti i particolari beni relazionali. All’interno di un paese, il quadro personalista più ampio possibile è la polis con la sua costituzione mista. Ma le relazioni e le istituzioni oltrepassano i confini degli stati. Pertanto, l’ambito più ampio del giusto scambio reciproco di beni relazionali tra le persone è la società internazionale formata da città, regioni, nazioni e commonwealth culturali, cioè legami socialmente e culturalmente condivisi tra i popoli. Ispirato dall’universalismo cristiano, che trova la sua massima espressione nel particolarismo della parrocchia locale, il postliberalismo cerca di bilanciare un sano patriottismo con un impegno per l’internazionalismo.

Politica del bene comune

L’enfasi sulla virtù suggerisce che il pensiero postliberale non è nuovo. Attinge a tradizioni intellettuali che risalgono ad Aristotele, al pensiero sociale cattolico e al comunitarismo. Negli ultimi anni, alcune di queste idee si sono legate a una politica antiliberale e antimoderna, animata da un desiderio reazionario di revocare i nuovi diritti e le libertà delle donne e delle minoranze, di tornare all’esclusione sociale e politica articolata lungo gli assi della razza, del sesso o della classe.

Un autentico approccio postliberale evita invece forme rozze di solidarietà costruite sull’omogeneità etnica o religiosa e abbraccia l’eredità pluralista delle tradizioni etiche forgiate nel Diciannovesimo e Ventesimo secolo. Il postliberalismo non sta per sostituire la vecchia opposizione sinistra vs. destra, né contrapposizioni più nuove come quelle tra liberalismo e populismo. Ma ha già rimodellato la politica occidentale spostando il dibattito dalla ricerca di visioni utopiche alla ricerca delle cose che contano per la maggior parte delle persone: la famiglia, il senso di appartenenza ai luoghi, le tradizioni, le relazioni.

Il membro del parlamento laburista Jon Cruddas, per esempio, nel suo libro The Dignity of Labour (Polity Press, 2021) attinge al pensiero sociale cattolico e al socialismo etico per dimostrare che il nostro bisogno umano fondamentale di un lavoro appagante è centrale per una politica della buona vita. Questo è il nuovo campo di battaglia di idee per i partiti politici e per quanti cercano di generare una politica che sia trasformativa, giusta e stabile, e che al tempo stesso sia rispettosa del creato e dell’umanità, concepita come articolata in una pluralità di identità e interessi. Ciò che nel Regno Unito la New Social Covenant Unit (istituita dal parlamentare conservatore Danny Kruger) chiama «un impegno reciproco, che si estende avanti e indietro nella storia, per sostenere la nostra vita comune e perseguire il bene comune».

La politica è una lotta per il potere, e oggi il potere è concentrato nelle mani della finanza globale, delle piattaforme tecnologiche e di paesi stranieri ostili. I popoli e le nazioni devono associarsi con rinnovato vigore per costruire una democrazia decentralizzata e resiliente, che sostenga la dignità del lavoro, l’importanza dei luoghi e la nostra reciproca dipendenza. Oggi il futuro appartiene a un liberalismo estremo, al populismo demagogico e a un autoritarismo che scivola verso nuove forme di fascismo. Questi spettri del passato sono tornati a perseguitarci e ora chiedono all’occidente di recuperare le sue migliori tradizioni. Il compito è costruire ampie coalizioni che possano conquistare il potere e dar forma a un nuovo consenso, offrendo alle persone la possibilità di partecipare alle cose che rendono la vita degna di essere vissuta.


L’articolo è estratto dal nuovo numero di Vita e Pensiero, il bimestrale dell’università Cattolica.

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