- l problema di Vladimir Putin è che non può vincere la guerra e neppure perderla. Non può vincere perché glielo impedisce, insieme all’inattesa valentia della resistenza ucraina, la debolezza dell’economia. Non può perderla perché a uno zar non è consentito tornare sconfitto.
- Per costringere i nemici alla resa Putin ha un’unica strada: annichilirli. Infliggere alla popolazione sofferenze tali che essa aneli disperatamente alla "pace”. Infittire i bombardamenti di civili.
- Ma prima di spingersi oltre il limite, Putin dovrebbe assicurarsi che Pechino non insorga, perché se la Cina lo mollasse partecipando alle sanzioni, il russo si troverebbe in enormi difficoltà.
Il problema di Vladimir Putin è che non può vincere la guerra e neppure perderla. Non può vincere perché glielo impedisce, insieme all’inattesa valentia della resistenza ucraina, la debolezza dell’economia. Non può perderla perché a uno zar non è consentito tornare sconfitto da una spedizione in cui ha messo in gioco la storia e il prestigio di Santa Madre Russia. Quando sarà prossimo al punto in cui non potrà proseguire la guerra e neppure ritirarsi, probabilmente Putin tenterà un rilancio terrificante. Chi potrebbe fermarlo, è domanda che ne trascina un’altra, decisiva: stiamo facendo quanto dovremmo per dividere la Cina dalla Russia?
Putin ha la necessità di chiudere in fretta la guerra, prima che il costo del conflitto e le sanzioni lo costringano a infliggere ai russi razionamenti e code davanti ai negozi alimentari, la povertà sovietica senza più la grandezza imperiale del paese che si divideva il mondo con l’impero nemico.
Obiettivo verosimile, ormai alla sua portata: chiudere in una sacca le truppe nemiche nell’Ucraina orientale, sterminarle o farle prigioniere, prendersi un altro pezzo di territorio ucraino, quindi dichiarare che l’Ucraina è stata “demilitarizzata” e dichiarare conclusa l’operazione “anti-terrorismo”; infine pretendere la cessione dei territori conquistati adesso e nel 2014 in cambio dei suoi ostaggi: Kiev e tanti prigionieri. Ma alla resistenza resterebbero territori e strumenti a sufficienza per organizzare la guerra di liberazione.
Così è probabile che prima o poi a Mosca dovranno ammettere che è stato insensato conquistare città ucraine senza conquistare gli ucraini. Quello sarà il momento fatale, e forse non è lontano.
La sola strada
Per costringere i nemici alla resa Putin ha un’unica strada: annichilirli. Infliggere alla popolazione sofferenze tali che essa aneli disperatamente alla "pace”. Infittire i bombardamenti di civili. Oppure prospettare minacce terrificanti, dal sabotaggio di un impianto nucleare ucraino fino ad un massacro con armi chimiche o batteriologiche.
Ma prima di spingersi oltre il limite, Putin dovrebbe assicurarsi che Pechino non insorga, perché se la Cina lo mollasse partecipando alle sanzioni, il russo si troverebbe in enormi difficoltà.
Da qui due questioni simmetriche: che cosa sia la Russia per la Cina e che cosa debba essere la Cina per gli occidentali. La posizione ufficiale del regime, affidata anche a contorsioni linguistiche (“La Russia è nostro partner strategico, non nostro alleato”, precisa il portavoce del ministero degli Esteri), è bilanciata: va rispettata la sovranità nazionale, dunque Putin non può prendersi un pezzo dell’Ucraina; ma la Russia ha reagito all’accerchiamento occidentale, dunque la Nato ha gran parte delle colpe.
Il sottotesto suona così: noi siamo una grande esportatore, ci è indispensabile un mondo stabile e globalizzato, guerre e caos non sono nel nostro interesse; ma allo stesso tempo non vogliamo subire l’accerchiamento che gli Stati Uniti e i loro amici ci infliggono nell’Indo-pacifico, dove la somma di Aukus (Australia, Gran Bretagna e Usa) e Quad (Usa, Giappone, India, Australia) costituisce un sistema di alleanze funzionale a controllare le vie marittime vitali per la nostra economia.
A ben vedere Pechino ha contribuito notevolmente all’assedio di cui si sente vittima, per esempio dotandosi della più grande flotta militare del pianeta per risolvere a spallate le infinite controversie territoriali con i Paesi dell’area. Ma comunque la si giudichi, la percezione cinese non può essere ignorata, se si vuole che Pechino eserciti il suo potere contrattuale per frenare Putin. Ma lo si vuole davvero?
Sotto la superficie della ritrovata “unità degli occidentali” si profila una differenza, se non proprio una linea di frattura. Attivando un canale di comunicazione permanente con il premier cinese, il tedesco Sholz e il francese Macron hanno messo in chiaro che Pechino dev’essere considerata parte della soluzione, non del problema.
Il ruolo di Pechino
Un accordo tra gli occidentali e Pechino potrebbe costringere la Russia ad un compromesso accettabile da Kyev, col risultato di fermare la guerra e salvare decine di migliaia di ucraini. Occorrerebbe mandare segnali distensivi alla Cina e incoraggiare Xi a fare altrettanto. Non è detto che basterebbe, in circostanze come queste di solito la politica estera cinese si trincea nell’immobilismo. Ma perché non tentare?
Però il vento che spira in questi giorni dai media americani non va in quella direzione. Pechino spesso figura come "di fatto” alleato di Putin, un nemico non dichiarato cui non fare sconti (costruiamo altre 200 navi da guerra per opporre ai cinesi una flotta doppia della loro, incita un opinionista del New York Times).
Spesso traspare una voglia di Guerra fredda, stavolta interpretata nei termini di democrazie versus autocrazie, dunque Occidente sotto la leadership americana contro Russia e Cina. La narrazione si diffonde con rapidità, a motivo del fatto che preesisteva: attendeva solo un’occasione per riemergere.
Secondo il Financial Times «il discorso che ha segnato l’inizio della nuova Guerra fredda, stavolta tra Usa e Cina» risale all’ottobre 2018. Mike Pence, vicepresidente di Donald Trump, annuncia: «La Cina vuole cacciare gli Stati Uniti dal Pacifico occidentale… ma non ci riusciranno». E mesi dopo: «Se non agiamo adesso alla fine il partito comunista cinese eroderà le nostre libertà».
Se la presidenza Trump trasforma in minaccia esistenziale al "mondo libero” una rivalità economica, certo combattuta dai cinesi con colpi proibiti, il presidente Joe Biden corregge il tiro: «Noi non cerchiamo una nuova Guerra fredda né una divisione del mondo». Ma ormai la metafora è entrata nel discorso pubblico.
In Italia alcuni media adottano gli schemi della Guerra fredda con l’entusiasmo di una repubblica delle banane. Malgrado all’epoca fosse devoto a Trump quanto a padre Pio, il premier Giuseppe Conte viene tacciato di rompere la solidarietà occidentale per aver aderito (goffamente) al progetto cinese Belt and Road, foriero di vantaggi per il nostro paese.
Un settimanale a larga tiratura accusa gli 11 centri culturali della Cina, i Confucio, di funzionare da schermo per lo spionaggio cinese, sicché i suoi direttori italiani (9 sinologi e 2 economisti, tutti stimati accademici) si scoprono colpevoli di intelligenza col nemico. Editorialisti indifferenti ai diritti umani si accorgono all’improvviso della brutale repressione cinese degli Uiguri e lamentano accorati che la Ue non insorga (curiosamente gli stessi quotidiani non hanno mai dato notizie di quanto accade nel Kashmir occupato dall’esercito indiano con altrettanta brutalità).
L’ambiguità di Pechino di fronte all’invasione dell’Ucraina permette di ripristinare la narrazione della nuova Guerra fredda in versione: Mosca e Pechino contro il Blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti. Non è questo lo schema che ci può proteggere dalle onde d’urto proiettate nel mondo dalla fine della Pax americana.
Avremmo semmai bisogno di un nuovo Accordo di Helsinki, e di un’Europa che se ne faccia promotrice. Di nuove regole per un mondo multipolare in cui le apprensioni di tutti, anche di Pechino, siano prese in considerazione. Occorrerebbe coraggio (anche da parte della Cina). E rapidità, perché il caos incombe.
L’alternativa
L’alternativa è il ritorno al retro-futuro verso cui già dirige una parte dalla stampa italiana. Da una parte il pacifismo ex-sovietico da cui il pacifismo sincero, quello delle Castellina e dei Landini, dovrebbe finalmente smarcarsi; dall’altra un atlantismo altrettanto petulante che vuole a tutti costi la Cina al di là della nuova Cortina di ferro, e noi tutti di qua, disciplinati e docili, senza velleità di ‘autonomie strategiche’, rassicurati dall’aver finalmente trovato il Nemico necessario alla costruzione della nostra smarrita identità («Sappiamo chi siamo solo quando sappiamo chi non siamo e spesso solo quando sappiamo contro chi siamo»: Samuel Huntington, ovviamente). Non siamo cinesi. Grande novità.
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