- Il presidente Erdogan ha chiesto a Finlandia e Svezia di mettere fine ai legami con il Partito dei lavoratori e con l’Amministrazione autonoma del Rojava in cambio dell’adesione alla Nato
- Per il capo di stato turco Pkk, Amministrazione autonoma del Rojava e semplici cittadini scandinavi appartenenti all’etnia curda e presenti anche nel Parlamento svedese rappresentano indiscriminatamente una minaccia alla sicurezza
- Erdogan usa ancora una volta le debolezze dell’Occidente a suo vantaggio, con l’obiettivo di colpire anche in Europa una minoranza che perseguita da anni tanto in patria quanto all’estero nell’indifferenza generale
Il veto turco all’entrata di Svezia e Finlandia nella Nato ripresenta l’irrisolta questione curda, riaccendendo i riflettori sul destino di un popolo più volte usato come moneta di scambio tra grandi potenze.
Per avere un’idea del trattamento generalmente riservato ai curdi basta osservare quanto accaduto in Siria. I combattenti delle Unità di protezione del popolo, le Ypg e le Ypj, sono stati fondamentali per la sconfitta dello Stato islamico, tanto da essere stati descritti per anni come degli eroi. Il mito dei combattenti curdi però è tramontato non appena l’Isis è stato sconfitto.
Il tradimento in Siria
Con la caduta del Califfato, l’attenzione mediatica è rapidamente calata fin quasi a scomparire, mentre i governi occidentali che grazie ai curdi hanno potuto contribuire alla guerra contro l’Isis con il solo supporto aereo si sono presto disinteressati dei loro alleati. Pochi mesi dopo la conquista dell’ultima roccaforte dello Stato islamico, l’allora presidente americano Donald Trump ha persino permesso alla Turchia di attaccare il nordest della Siria, spostando le truppe a presidio dei soli giacimenti petroliferi presenti più a est.
Grazie a questa manovra americana, ad ottobre del 2019 Ankara ha potuto lanciato una nuova operazione, Sorgente di pace, conclusasi con la creazione di una zona cuscinetto tra il Kurdistan siriano e la Turchia. A discapito dei curdi, che hanno dovuto abbandonare quei territori faticosamente liberati dalla presenza dello Stato islamico.
Una volta terminata la guerra contro l’Isis, l’Amministrazione autonoma del Rojava è stata lasciata sola anche nella gestione dei prigionieri e delle loro famiglie, foreign fighters compresi. Molti paesi occidentali infatti si sono rifiutati di riprendersi i loro cittadini detenuti nelle carceri curde perché non possiedono gli strumenti normativi adatti per processarli né programmi per il loro reinserimento in società.
Questo compito è stato così affidato ai curdi, privi per ovvie ragioni dei mezzi adeguati per gestire una situazione così esplosiva. A causa delle precarie condizioni di vita, i campi profughi e le carceri allestite dall’Amministrazione autonoma sono diventati terreno fertile per la radicalizzazione, il che rappresenta un rischio per la sicurezza tanto dei curdi quanto della comunità internazionale, che avrebbe ben poco da guadagnare dalla rinascita dell’Isis o di altre forme di estremismo.
Il disinteresse occidentale verso il Rojava ha anche permesso e permette tutt’oggi alla Turchia di attaccare i curdi siriani, ampliando la fascia di territorio sotto il proprio controllo anche grazie all’impiego di combattenti provenienti dalle fila di al Qaida e di altre organizzazione islamiste.
L’Iraq e il gas
Ma le mire di Erdogan non si limitano al solo Kurdistan siriano. Ad aprile il presidente turco ha lanciato una nuova operazione contro il Pkk, il Partito dei lavoratori considerato dalla Turchia un’organizzazione terroristica, attaccando il nord dell’Iraq.
Le vittime di questa nuova azione militare, però, sono anche civili curdi e yazidi, appartenenti questi ultimi a quella minoranza brutalmente perseguitata dall’Isis e ugualmente dimenticata dall’occidente una volta caduto il Califfato.
In passato, le campagne militari lanciate dalla Turchia in Iraq del nord erano state fortemente condannate da Usa e Unione europea a causa del numero di vittime civili, ma questa volta le critiche sono state molto più contenute. Per Washington e Bruxelles, il ruolo di mediatore ricoperto da Erdogan nella guerra in Ucraina è troppo importante per entrare in rotta di collisione con il presidente turco.
Finlandia e Svezia
Con il veto imposto da Ankara alla richiesta di ingresso nella Nato di Finlandia e Svezia, i curdi rischiano di essere nuovamente traditi dall’occidente. Erdogan vuole che Helsinki e Stoccolma mettano fine al loro rapporto con l’Amministrazione del Rojava e che accettino le richieste di estradizione dei membri del Pkk, trattati dai paesi scandinavi come rifugiati politici a causa della persecuzione a cui curdi sono sottoposti in Turchia.
Tra le richieste del presidente turco rientra anche la fine dell’embargo alla vendita di armi imposto da Svezia e Finlandia nel 2019 proprio in risposta agli attacchi contro i curdi in Siria del nord. In un’ottica più generale, stando alle parole di Erdogan, i paesi scandinavi dovrebbero tenere finalmente conto delle preoccupazioni turche relative al terrorismo, legate anche alla presenza di un’importante diaspora curda in Finlandia e Svezia e all’elezione di alcuni politici di origine curda nel parlamento di Stoccolma.
Nella narrazione imposta dal presidente turco, dunque, Pkk, Amministrazione autonoma del Rojava e semplici cittadini scandinavi appartenenti all’etnia curda rappresentano una minaccia alla sicurezza, in un’ottica di generale discredito di una minoranza che Erdogan continua a perseguire tanto in patria quanto all'estero. Adesso sta a Finlandia e Svezia scegliere se abbracciare le politiche repressive del presidente turco o se continuare a seguire la strada della democrazia e dell’integrazione.
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