- Una giornalista, un poliziotto afghano, un’atleta, una madre che ha cucito il nome del figlio sugli abiti.
- Le biografie delle vittime sulla spiaggia dello Jonio sono la sintesi del fallimento delle guerre combattute negli ultimi anni.
- E mostrano che chi è partito conosceva fin troppo bene i pericoli del mare.
C’è un ragazzo, sulla ventina. Nell’oscurità i sopravvissuti non riescono a distinguerne i lineamenti del volto. È riuscito a fatica ad arrivare a riva. Vede i corpi sulla spiaggia. Sente le urla di paura. Tocca la sabbia e torna in mare. Tira fuori un uomo, lo adagia sulla battigia e si tuffa nuovamente. È un ammasso di anime che combattono per la vita. Il ragazzo si immerge, un’onda lo risucchia e il Mediterraneo lo fa suo. Mentre viene inghiottito, a una centinaio di metri Amhed viene ripescato dal fratello maggiore.
Amhed ha sei anni, è piccolo e riuscire ad acciuffarlo con la mano non è stato semplice. Il giovane lo tiene stretto a sé. Ha promesso ai genitori che si sarebbe preso cura della vita del fratellino. Trova una trave di legno che ondeggia, ci si aggrappa con le poche forze che ha. Una vita tenuta sospesa sopra il mare. Amhed sente le braccia forti che lo cingono. Fa freddo quella notte, troppo freddo. Sente pronunciare il suo nome, il suono si perde. Gli occhi si chiudono. L’immersione improvvisa in acqua molto fredda può causare un’ipotermia fatale nel giro di cinque minuti. I brividi cessano, i movimenti diventano lenti, il pensiero si confonde. Amhed scivola nel coma. Muore di freddo su una trave di legno della Summer Love il 26 febbraio del 2023. Con lui muoiono poliziotti, medici, campionesse, giornaliste, intellettuali. Muoiono esseri umani. Muoiono persone che avevano aiutato l’Italia nella lunga permanenza in Afghanistan. Muoiono gli abbandonati. Coloro che conoscevano i rischi del viaggio, a cui era stato promesso di arrivare in Europa il 15 agosto del 2021 con un ponte aereo che per loro non c’è mai stato.
Il mare decide
È passato un mese dal naufragio. Il telefono si illumina. Sullo schermo appare un messaggio: «Non è facile lasciare andare via questa storia». È Vincenzo Montalcino, direttore di CrotoneNews. Poi copia e incolla l’ultimo bollettino della prefettura. «Prospetto persone decedute nel naufragio», si legge in cima alla pagina. Ci sono tre righe a seguire: 31 uomini adulti, 26 donne adulte, 34 minori di cui 21 maschi e 13 femmine (31 sotto i 14 anni e tre sopra i 14 anni). È la morte che si fa conteggio. Numeri che si sovrappongono e cambiano in questa staffetta di aggiornamenti, raccontano di quando è passato un mese, 30 giorni esatti.
A 17 chilometri dal punto in cui la nave si è sbriciolata viene trovata la novantunesima vittima. Ancora numeri.
«Decide tutto il mare», dice uno dei soccorritori che da oltre un mese cerca di recuperare i corpi inghiottiti dall’acqua a Steccato di Cutro. È il mare a decidere quando uno di quei numeri riportati su un foglio può tornare a essere una persona. A volte ricompaiono a pochi metri da dove erano spariti, altre a chilometri di distanza. Il tempo, al campo base, diventa incredibilmente lento quando il Mediterraneo decide di tenere prigioniero ciò che si è preso. Poi, all’improvviso, tutto è frenetico. Un vestito, un frammento di barca, un oggetto, una vita interrotta. Sceglie il mare cosa mostrarti. Cosa restituirti. Lentamente. Brutalmente.
Dall’acqua riemergono le storie. Storie che toccano la terra ferma. Che sostituiscono i numeri. Che parlano di vita. È una giovane donna afghana, ha 28 anni. Con lei sulla barca il fratello più piccolo. Lui un 15enne pronto a vivere in Europa, lei un medico. Con l’arrivo dei Talebani esercitare la professione era diventato impossibile. I genitori hanno messo nelle loro mani soldi e speranza. Sono partiti. Lei è morta, lui è salvo. Per giorni, seduto sui gradini, ha vegliato la bara della sorella, allineata insieme alle altre sul campo del Palamilone di Crotone. Ha sentito la presidente del Consiglio promettere che i parenti rimasti nelle terre da dove loro sono scappati verranno evacuati.
In decine hanno iniziato a chiamare. A intercettare le telefonate l’associazione Sabir, che dal primo giorno si occupa di queste famiglie devastate. Manuelita Scigliano, che dell’associazione è presidente, spiega: «Ci chiamano ma noi non sappiamo come indirizzare queste richieste. Non sappiamo se le procedure siano partite o meno».
E mentre le famiglie rimaste in Afghanistan, o nei campi profughi del Pakistan, tentano di arrivare, il mare continua a raccontare le vite. Soffriva di diabete chi nel proprio bagaglio ha messo il kit per misurare la glicemia. Uno strumento prezioso, tanto da sigillarlo con del nastro adesivo in modo che se mai si fosse bagnato, l’acqua non lo avrebbe rovinato. Così è stato. La bustina sigillata è finita in acqua, restituita dalle onde intatta. Asciutta. Con il misuratore ancora perfettamente funzionate.
Shahida era pachistana. Giocava a hockey su erba e calcio. Viaggiava, per sport. Non questa volta però. Il caicco turco doveva accompagnarla verso un nuova vita in Europa. Un viaggio disperato, intrapreso per provare a salvarne un’altra, di vita, quella del figlio malato. Era partita da sola, il figlio non era a bordo. Probabilmente voleva essere certa di potergli assicurare le cure prima di farlo viaggiare. Scelta fortunata, perché di bambini a Cutro ne sono morti 35.
Rischi noti
Dentro il Palamilone, divenuto camera ardente, c’è un neonato. Lo hanno chiamato KR16M0. È il suo codice identificativo, scritto con un nastro adesivo bianco sulla bara, ma il medico legale è riuscito a dargli un nome sulla base di indicazioni della procura di Crotone. Ha otto mesi e si chiama Siana Alì. Nessuno lo ha reclamato. Giace solo dentro un palazzetto dello sport.
Si è sparsa la voce che avesse il nome cucito nella tutina e chi è ormai saturo di rabbia, va in giro dicendo: «Tu cuci il nome di tuo figlio perché conosci i rischi del mare, non c’è bisogno di nessuna pubblicità».
Parole, queste, in risposta alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha proposto di creare campagne di informazione apposite per spiegare i rischi della traversata a chi decide di sfidare il mare.
Lei sapeva tutto, aveva poco più di 60 anni. Quando ha raggiunto le coste turche ha chiamato la figlia che responsabilmente era fuggita negli Stati Uniti quando i Talebani sono tornati al potere.
Voleva continuare a esercitare la professione di dentista ed è riuscita a farlo, perché chiedendosi cosa potesse fare per il suo paese, la risposta è stata: nulla. Durante la telefonata con la madre ha provato a dirle di cercare un’altra strada, che era troppo pericoloso. Ma la donna le ha risposto che era rimasta sola, che senza i suoi figli e i suoi nipoti nulla aveva senso. È morta nel tentativo disperato di salvare una bambina. Il mare quella notte era furioso. La barca scricchiolava, si percepiva tutta la precarietà della vita.
Dimenticati
Kenan sa nuotare, lui è figlio di combattenti. Si trova sulla prua della Summer Love quando sente un tonfo sordo. È un ragazzo con gli occhi neri, i capelli sono rasati ai lati, le sopracciglia sono appena pronunciate sul volto tondo. Si rasa il viso ogni giorno. Ha 27 anni ed è fuggito da Kabul. «Voglio studiare», confida allo zio che vive in Svizzera. Kenan non vuole combattere, ha altri sogni per sé. Il padre è stato un fedelissimo del leone del Panshir, Massud. Una leggenda in Afghanistan, colui che ha sfidato i Talebani e si è arroccato con i suoi soldati per difendere la libertà. Osannato dalla stampa occidentale come un eroe, poi dimenticato anche lui. Come dimenticata è quella terra. Il buio è fitto, le onde alte come muri impenetrabili.
La Summer Love si schianta contro una secca. Lui ha il mare davanti, sa nuotare, può tuffarsi e raggiungere la riva che è a poche bracciate. Kenan guarda il nero, si gira e va nella pancia del caicco per salvare gli altri. Nessuno lo vedrà riemergere. La pancia lo ha mangiato. Lui che voleva fare lo studente è morto da combattente. Pochi giorni prima della partenza aveva scritto allo zio, pregandolo di imprimere sulla sua lapide, qualora il viaggio avesse avuto esito infausto, queste parole: «La terra della mia anima è così dura/c’è un sasso pesante sul mio petto/da questo barcone/ho capito che chi vede la realtà/deve essere realista,/che sei il luogo in cui arrivi/e quella è la tua ultima destinazione».
Abbandonati
L’Italia doveva essere l’ultima destinazione anche per un’intera famiglia. Hamed in Afghanistan faceva il poliziotto, aveva collaborato anche con l’esercito italiano. Il cugino era capo di gabinetto del governatore della provincia di Herat, lui lo scorso 15 agosto lo avevano fatto salire su un aereo con destinazione aeroporto di Fiumicino, terminal numero cinque.
Hamed non era riuscito a essere inserito nella lista degli evacuati. Per mesi scrive al ministero degli Esteri, pregando di ricevere aiuto e di essere portato in salvo. Nessuno gli risponde. Le possibilità di sopravvivenza si assottigliano. Con la moglie decidono di portare i figli in Iran. La situazione politica si complica e una voce amica lo avverte che presto lo uccideranno in un agguato perché amico degli occidentali.
Scappa di nuovo, raggiunge la Turchia e si imbarca sulla Summer Love. Sono in quattro. Lui, la moglie e i due figli piccoli. Tutti morti.
Di vite e diritti si occupava Torpekai, 42 anni, giornalista afghana in fuga dai Talebani, colpevole di denunciare con i suoi articoli la situazione in cui sono costrette a vivere le donne nel suo paese. A piedi, insieme a due cugini e ai loro tre figli, aveva raggiunto l’Iran e poi la Turchia. Quattro giorni prima del naufragio era salita sul caicco. Destinazione Italia. Voleva continuare a parlare di libertà. Tutti morti, anche loro.
La necessità di andare
Libero non si sentiva nemmeno Uday, palestinese. Scappava dalla guerra e dalla povertà. In un video registrato prima di attraversare il mare, parole che suonano come una profezia. «Abbiamo salutato tante persone. Abbiamo continuato le nostre vite, tristi e addolorati. Abbiamo anche pianto», dice. Sembrava sapere che il mare decide tutto. Ma a volte è necessario andare.
Una scelta che ha fatto anche Leila. Un marito ucciso dai talebani, restare avrebbe significato morire. E tra morte certa e un forse, ci si aggrappa al forse. Sono sopravvissuti solo lei e il bimbo di dieci anni. Miriam di 17 anni e Niyayesh di 7 anni sono affogate. Affogate come l’umanità in quello spicchio di terra.
Per un errore tecnico una versione sbagliata di questo articolo è stata pubblicata sul mensile Politica in edicola da sabato 8 aprile. Ce ne scusiamo con gli autori e i lettori.
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