Quando mi chiedono che personalità, vivente o no, vorrei poter incontrare rispondo sempre Margaret Thatcher, e la cosa sorprende molti. Perché la leader dei conservatori inglesi è per me una figura di riferimento? Non ho nessuna affinità politica con lei, ma anche lei è stata la prima: la prima donna a presiedere il parlamento della Gran Bretagna, una che si è fatta da sola in modo sbalorditivo.

Senza essere invitata e senza avere le conoscenze giuste, si è presentata giorno dopo giorno in stanze di soli uomini e ha finito per convincerli ad affidarsi a lei. È stata in carica per undici anni, il mandato più lungo di qualsiasi politico britannico nel ventesimo secolo, la riprova di una sicurezza di sé e di una intelligenza straordinarie. Non aveva paura di niente.

In prima superiore presi l’abitudine di frequentare le lezioni di matematica per chi imparava l’inglese; me ne stavo in fondo all’aula, dove c’erano i ragazzi somali. Facevamo gli scemi e parlavamo della politica del nostro paese d’origine. Non so perché l’insegnante me lo lasciasse fare, era un amico di mio padre Aabe, e ogni volta che lo incontrava al bar, papà gli chiedeva se mi avesse vista.

Era preoccupato per la mia vita da adolescente americana e cercava informazioni. L’insegnante gli diceva di non preoccuparsi: «È una Lady di Ferro» diceva. «Se vedessi Ilhan contro cento uomini, è per loro che mi preoccuperei». Papà Aabe mi chiama ancora Lady di Ferro: pensa che io non abbia paura di nulla. Sono stata capace di convincere tutti che posso essere una leader, senza bisogno di credenziali o validazioni.

La mia forza non viene dalla mancanza di paura ma da un’irresistibile indignazione morale. Mi sono opposta al ragazzino prepotente della mia classe delle elementari perché se la prendeva con un compagno più debole senza neppure badare che era il doppio di me. Il giorno delle elezioni nel 2016 ho detto: «Questa è davvero la vittoria di una bambina di otto anni in un campo profughi, la vittoria di una giovane donna indotta a sposarsi ragazzina, la vittoria di chiunque si sia sentito dire che ai sogni ci sono dei limiti».

Voglio aiutare tutti quelli che si sentono piccoli a sentirsi grandi, dare forza a tutti coloro che si sentono deboli, far sentire la voce di chi non ha voce. Questo è per me il sogno americano. Quando siamo arrivati negli Stati Uniti e Aabe ha risposto alla mia delusione nel vedere New York piena di spazzatura dicendomi «La nostra America non è così. Ci arriveremo, alla nostra America», voleva dire «La città dove staremo non è così».

Ma in quel momento a me sembrava fossimo arrivati nell’America sbagliata, e che a quella giusta prima o poi ci saremmo arrivati, quella che corrispondeva all’immagine che avevo in testa. Io tuttora percorro la strada che mi porterà alla nostra America.

Il sogno americano

Anche se non è la realtà quotidiana di tutti in questo paese, il sogno americano non è solo un mito di cui parlano gli immigrati che arrivano o che vorrebbero venire. Fa parte della mentalità del paese ed è quello che tutti noi cittadini degli Stati Uniti cerchiamo. Tutti vogliamo cenare con un tacchino gigantesco in una bella casa. Vogliamo scuole accoglienti e quartieri nei quali i nostri figli possano andare in bicicletta o giocare insieme. Vogliamo esportare questa immagine al resto del mondo perché è ciò cui aspiriamo per noi stessi.

Non so se i video che mi facevano vedere in Kenya prima di salire sull’aereo per gli Stati Uniti siano ancora parte del programma di orientamento per nuovi americani, ma so che la maggior parte dei profughi e degli immigrati che arrivano qui da tutto il mondo non avranno mai una bella casa, una scuola pulita e un ambiente sicuro per i propri figli simili a quelli rappresentati. Questo è terribile e splendido allo stesso tempo. Essere parte di questa costante aspirazione a una società migliore è il dono che si riceve salendo sull’aereo che porta qui.

Grinta ed energia sono elementi essenziali del sogno insieme ai campi di granturco e alle staccionate di legno bianco, sono la benzina che spinge avanti i nuovi americani che lavorano senza tregua per realizzare quella promessa. Anche se siamo ancora lontanissimi, il lavoro per arrivare a un’unione migliore è sancito dalla Costituzione, il fondamento di questo paese.

Mi chiedo però spesso, con preoccupazione, se quest’aspetto dello spirito americano, quello della grinta, non sia rimasto appannaggio quasi esclusivo dei nuovi immigrati perché noi siamo diventati troppo passivi. Non rappresentiamo più gli ideali che invece cerchiamo di esportare nel resto del mondo. Nel nostro paese le ingiustizie e le difficoltà economiche sono talmente all’ordine del giorno che neppure le riconosciamo più.

Un sistema elitario

In passato non si parlava molto di pregiudizi razziali, di genere, culturali, religiosi, sessuali, perché si dava per scontato che fossimo tutti uguali e quello che faceva la differenza fosse la capacità di lavorare duro e perseverare. Ma ignorare le strutture economiche che permettono ad alcuni di accumulare immensi patrimoni mentre altri faticano a mettere insieme la cena o non hanno un tetto sopra la testa giova soltanto ai ricchi e potenti.

Quello che manca nel dibattito a proposito della nostra identità nazionale è riconoscere che esiste un sistema elitario che contraddice la nostra visione di noi stessi come individualisti pronti a tutto e in grado di conquistare qualsiasi frontiera, dalla creazione di codici informatici alla scrittura di soggetti per il cinema.

Nella nostra mitologia culturale c’è un falso senso del potere e della realizzazione personale. È dilagato l’odio sotto forma di politiche identitarie, ma sono convinta che per la maggior parte nasconda un’ansia economica. Quando le lauree non portano lavoro ma solo inestinguibili prestiti studenteschi, quando le rate delle assicurazioni sanitarie sono talmente alte da lasciare le famiglie in bancarotta dopo una grave malattia è piuttosto comprensibile nutrire odio per chi ha meno problemi economici. Ma è una rabbia rivolta erroneamente contro gli individui, mentre dovrebbe essere indirizzata contro la struttura sociale e sfruttata come spinta al cambiamento.

Credo fermamente che l’America che vogliamo e che ci meritiamo non sia solo un’utopia ma esista davvero, però solo se lavoriamo per raggiungerla, e non solo come individui, non solo per le nostre famiglie, il nostro gruppo etnico, religioso o altri ai quali apparteniamo. Dobbiamo impegnarci tutti insieme.

L’interconnessione

L’essenza dell’attivismo civico è trovare obiettivi comuni a individui diversi e usare i grandi numeri per chiedere, da una posizione di forza, che vengano raggiunti. È il passo successivo del processo di un governo rappresentativo. Una volta colta l’importanza di votare, le relazioni tra cittadini, vicini, colleghi devono continuare a espandere il cerchio dei nostri interessi fino ad arrivare a sentire la verità fondamentale: siamo tutti collegati. Più siamo coinvolti gli uni con gli altri, meglio staremo tutti.

Questo principio di interconnessione ispira il mio lavoro parlamentare in un paese nel quale ci sono risorse sufficienti a raggiungere tutti i nostri obiettivi. Siamo all’opposto del mito della scarsità, dove quel che è mio viene necessariamente sottratto da quel che è tuo; ci ossessionano quelli che hanno più di noi e ci deprime ciò che non abbiamo. Questa mentalità è quella che finisce per mettere le minoranze l’una contro l’altra in una lotta tra poveri, e chi difende lo status quo è ben felice di vederci così distratti.

Vorrei lanciare una nuova versione del vecchio adagio secondo il quale quando c’è qualcuno che perde vuol dire che qualcun altro ci guadagna, e riformularlo dicendo che se io perdo perdi anche tu e se io guadagno ci guadagniamo insieme. Potrebbe sembrare utopistico, invece è un argomento pratico. Pensate alle comunità ricche e alle loro paure più profonde, che di solito hanno a che vedere con la sicurezza. Chi minaccia la loro sicurezza? Chi non riesce ad avere una vita decente.

Se ci sono pignoramenti in massa, chi resta senza casa avrà bisogno di servizi che finiamo per pagare tutti, e lo stesso vale per l’assistenza sanitaria e l’istruzione. Vecchia storia. Capovolgere lo schema di come affrontiamo le sfide della nostra società passando da io e loro a noi parte dalla comprensione individuale. Più siamo disponibili ad ascoltare e imparare da chi ha un passato e delle circostanze di vita diverse dalle nostre, più riusciremo a trovare una connessione con la nostra esperienza diretta.

Anche se lo schema vincere/perdere sembra impossibile da scardinare, all’interno del nostro sistema politico, per chi governa come me non c’è nulla di più importante dell’empatia. L’ho visto bene come nuova americana, come attivista in seno alla comunità e poi come parlamentare del Congresso: non possiamo risolvere i problemi a meno di non metterci nei panni di chi viene coinvolto direttamente dalle soluzioni che applichiamo.

Qualsiasi politica è personale: a un certo punto, se il cerchio si allarga, arriverà a toccare anche te. Il processo democratico è un bimbo che impara a camminare: sbaglia spesso, ma spesso riesce.

Ilhan Omar è autrice del libro Così è l’America. La mia storia da rifugiata a membro del Congresso, edito da HarperCollins

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