- Gli inglesi, resi esperti da una lunga storia imperiale, racchiudono la diplomazia dentro la formula ruvida e cinica “mentire e negare”. Ma anche a distanza di anni si allontana decisamente da questo motto la figura di Dag Hammarskjöld.
- Le sue parole non sono semplici citazioni sparse qua e là, applicate come francobolli su un foglio, a integrare e abbellire frasi banali in discorsi preparati da altri.
- Lipsey, riconosciuto come il vero biografo di Hammarskjöld, scrive che il suo compatriota era legato ad autori europei dalla integrità morale, dalla austerità nell’uso delle parole, non una in più né una in meno dello stretto necessario.
Nel mondo della diplomazia abbonda l’espressione “Sua Eccellenza” scritta con la maiuscola. Parola elogiativa ma temeraria, eredità di epoche lontane quando governavano e abbondavano imperatori e re. È difficile immaginare che sul pianeta esistano migliaia di donne e uomini eccellenti, corrispondenti al numero di alti diplomatici e rappresentanti speciali dislocati oggi nelle varie ambasciate e nelle varie organizzazioni internazionali.
Gli inglesi, resi esperti da una lunga storia imperiale, racchiudono la diplomazia dentro la formula ruvida e cinica “mentire e negare”. Ma anche a distanza di anni si allontana decisamente da questo motto la figura di Dag Hammarskjöld, secondo segretario generale nella storia dell’Onu, che coprì questo incarico per due mandati, dal 1953 al 1961, morto in un incidente aereo mai chiarito, simile a una imboscata o a un attentato, mentre era in missione in Congo.
Storia di un negoziatore
Veniva da quel mondo svedese, o forse è meglio dire nordico, legato a idee liberali, di apertura e democrazia, che non a caso ha prodotto il premio Nobel per la pace. Un mondo che ha tenuto aperti collegamenti, favorito tregue tra fazioni e stati in guerra spesso nel più completo silenzio, che ha aperto prima e più di altri le porte ai migranti in fuga.
J. F. Kennedy disse: «Al confronto capisco che io sono un piccolo uomo, è stato il più grande uomo politico del Ventesimo secolo». In questo caso si può dire che l’eccellenza è almeno sfiorata. E adesso Hammarskjöld: etica e politica di Roger Lipsey (edizioni Qiqajon), un libro quasi lieve nel suo linguaggio, ma ricco e potente nei contenuti, delinea la filosofia di questo negoziatore anomalo.
Un uomo certo aiutato da una ricca storia familiare costruita da militari, scrittori, leader politici, religiosi, e arricchita da una cultura profonda che univa pensatori cinesi, indiani, europei. Le sue parole non sono semplici citazioni sparse qua e là, applicate come francobolli su un foglio, a integrare e abbellire frasi banali in discorsi preparati da altri.
I suoi riferimenti passano con scioltezza da Marco Aurelio a Le mille e una notte, a Kant, a Linneo, a Camus e lo aiutano a muoversi in una sua geografia dei rapporti e delle controversie internazionali. Convinto che un negoziatore è costantemente respinto, ma che allo stesso tempo non deve sentirsi mai scoraggiato, che l’astuzia non esclude la rettitudine, il rispetto della parola.
E che le scelte coraggiose in realtà sono soltanto scelte coerenti. Senza ignorare che la vanità, l’interesse personale, l’ossessione della carriera, la resistenza a guardare più in là di due, tre mesi, si infiltrano in ogni discussione. Mentre il segnale del successo non è mai nella vittoria finale, nella firma di un testo che spesso rimane inascoltato e la propaganda non è la via attraverso la quale costruire un rapporto di fiducia, un’amicizia.
Diplomatici
Lipsey, riconosciuto come il vero biografo di Hammarskjöld, scrive che il suo compatriota era legato ad autori europei dalla integrità morale, dalla austerità nell’uso delle parole, non una in più né una in meno dello stretto necessario. Questo rigore mette a nudo povertà e ipocrisia di certi diplomatici in svariate occasioni.
Celebre il caso dei khmer rossi rimasti all’Onu nonostante il massacro compiuto contro il loro stesso popolo. Poi altre vicende più modeste, ma miserande, con il ministro degli Esteri italiano che in parlamento aveva elevato una vivace ragazza a nipote di Mubarak, con il principe saudita bin Salman che ha fatto sparire l’oppositore Khashoggi dentro il suo consolato, con il presidente del consiglio europeo Michel che non ha la prontezza di cedere la sua poltroncina alla commissaria von der Leyen davanti al sultano turco, con il negoziatore americano che firma un accordo con i Talebani scrivendo per 16 volte che non riconosce il loro emirato. Si è visto poi la solidità di questo accordo.
Dopo le colonie
I primi anni di vita al palazzo di vetro erano quelli dell’entusiasmo per una nuova impresa, dopo le macerie di Hiroshima, di Dresda, di Montecassino, dopo i campi di sterminio nazista e i gulag sovietici. E tra le crisi più impegnative che Hammarskjöld si era trovato di fronte c’era la nazionalizzazione del canale di Suez e il Congo.
Inghilterra e Francia avevano perso le loro colonie e non volevano accettare la nazionalizzazione dell’Egitto attraversato da quella via d’acqua artificiale, mentre il Belgio non voleva cedere le risorse del Congo. Due appuntamenti obbligati e simbolici della storia postcoloniale.
Attualissimi e strategici, come ha dimostrato da sola la gigantesca nave container finita di traverso nel canale tra il Mar rosso e il Mediterraneo nella primavera scorsa e come dimostra la corsa primitiva al cobalto del Congo, nella ricerca affannosa contemporanea delle materie prime rare.
Un ragno e un filo d’erba
Hammarskjöld al momento di negoziare evitava di proporre una soluzione affrettata. «Venendo da me, essa verrebbe immediatamente vista con sospetto e respinta. Invece complico il più possibile le cose; moltiplico le conversazioni esplorative. Mi comporto come un ragno che avviluppa un insetto… Intreccio i miei fili intorno al problema fino a renderlo invisibile o, se preferite, incomprensibile. Alla fine la gente non ha più una chiara idea di ciò che li ha resi avversari e rinuncia a combattere». Non sempre però arrivava la conclusione positiva. E non si stupiva del comportamento indisciplinato da chi pure si presentava in doppiopetto.
Forse spinto dalla sua passione per monti e boschi si paragonava volentieri a un filo d’erba, meno attraente di un bel fiore colorato ma più resistente, orgoglioso di non avere perso il suo colore verde benché calpestato più volte. Questo non è un linguaggio che appartiene al mondo della politica, ma piuttosto alla sensibilità di un romanziere.
Alla fine c’è una riflessione più generale che lo conduce a queste parole: «Benedici l’inquietudine, quale segno di vita». È in anticipo di quasi 70 anni sulla stessa frase di papa Francesco, il più grande diplomatico di questi anni, che ha confidato: «Solo l’inquietudine dà pace».
La falsa gravidanza
La vita di Hammarskjöld si era conclusa da alcuni anni quando nel 1973 a Vienna si riunirono rappresentanti della Nato e del Patto di Varsavia per avviare il negoziato Mbfr sulla riduzione delle armi convenzionali. Non si trattava di armi strategiche, più delicate da maneggiare politicamente.
Ma solo la composizione della sigla rubava giorni e giorni di parole, notti di albergo a cinque stelle, pranzi e cene sempre di rango, e trasferte in auto in cui nessuno scendeva mai da una utilitaria. Un caso tipico di diplomazia costosa, lucida, ben stirata ma inerte.
Il negoziatore sovietico, Georghi Arbatov, uno degli uomini che il Cremlino esibiva senza soggezione sulla scena internazionale, esperto nel dialogo con gli americani, che mai si sarebbe tolto una scarpa per sbatterla rumorosamente sui banchi del palazzo di vetro come invece aveva fatto Krusciov, confidandosi con un professore tedesco dell’istituto Max Plank aveva proposto: «Chiudiamo tutti questi negoziatori dentro un sottomarino, diamo 48 ore di ossigeno, e allora si accorderanno velocemente». La conclusione dei lavori si trascinò fino al 1989. Uno dei negoziatori, probabilmente esausto, aveva definito quella trattativa come “la falsa gravidanza” più lunga della storia politica.
Una bandiera scolorita
La benedetta inquietudine aveva contagiato anche Giandomenico Picco, rappresentante speciale Onu, quando quaranta anni fa cominciò a interessarsi degli ostaggi catturati in Libano da hezbollah. Li portò a casa tutti. Quando i tedeschi chiesero se poteva interessarsi anche a due loro prigionieri il nuovo segretario generale, Butros Ghali, gli disse che l’Onu aveva già ottenuto un ampio ritorno di immagine, bastava così.
Lui si impegnò privatamente, partì per Beirut e lasciò una lettera di dimissioni sul suo tavolo. Arrivò in Germania con i due tedeschi e telefonò alla segretaria di consegnare la lettera. Un diplomatico disse che quel giorno re Artù aveva perso uno dei suoi cavalieri. Il numero dei suoi ostaggi liberati in giro per il mondo senza fotografi, in silenzio, supera il centinaio.
Sul 38° parallelo, a Panmunjom, si vede il testo scolorito rilegato in rosso dell’armistizio che chiudeva la guerra di Corea nel 1953. C’è scritto che entro tre mesi verrà firmato il trattato di pace. Vicino c’è una piccola bandiera dell’Onu un tempo azzurra e oggi scolorita, esangue.
A distanza di quasi settanta anni i diplomatici eccellenti non hanno raggiunto l’intesa. Ma esiste sempre la minoranza dei negoziatori inquieti. Proprio nei giorni scorsi un diplomatico svedese, con una autorevolezza unica su uno dei dossier internazionali più delicati, scriveva privatamente e concludeva: «Niente di più, niente di meno, è così». Anche lui senza sprecare le parole, come Hammarskjöld.
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