In seguito all’attentato terroristico di matrice islamista al Crocus City Hall di Mosca dello scorso marzo, avevamo scritto che il Daghestan, la più grande repubblica della Federazione russa del Caucaso settentrionale, avrebbe costituito, nei mesi successivi, uno stress test per il Cremlino perché è il «vulnus del separatismo all’interno dell’arcipelago multi-etnico e multi-religioso della Russia».

Per il presidente Vladimir Putin, non è una novità che le principali e più insidiose istanze separatiste provengano proprio da quest’area. Sin dal suo insediamento al potere, uno dei principali timori di Putin è sempre stata l’eventualità di una nuova disgregazione territoriale, dopo quella avvenuta con il crollo dell’Unione sovietica.

E gran parte delle politiche implementate in questi anni, che hanno determinato una torsione autoritaria nel paese, sono da interpretare anche in quest’ottica: evitare una nuova destabilizzazione geopolitica della Federazione russa attraverso una maggiore repressione politica.

D’altronde, basta ricordare alcuni episodi più o meno recenti per capire quanta tensione esista tra Mosca e quella parte del Caucaso: dalle guerre cecene al “massacro di Tukchar” nel 1999, sino al recente tentativo di pogrom antisemita dell’ottobre 2023.

Non solo, proprio recentemente, secondo la Tass, la Turchia avrebbe contribuito a prevenire un secondo attacco terroristico a opera del gruppo Vilayat Khorasan in un centro commerciale di Mosca.

Non è nemmeno un caso che quello che è successo la scorsa domenica sia stato interpretato e diffuso dalla propaganda russa come l’ennesimo tentativo statunitense di indebolire il Cremlino sia con la guerra in Ucraina sia alimentando gli interessi e le azioni dei gruppi separatisti in loco.

I fatti

Ma veniamo ai fatti di cui siamo, al momento, a conoscenza.

Un’azione ben coordinata di un commando terroristico è intervenuta in due città del Daghestan – Derbent e Makhachkala – attaccando due sinagoghe e una chiesa, espressioni delle comunità ebraica e ortodossa, e urlando: «Qui la loro sinagoga sta bruciando, con il permesso di Allah infedeli saranno umiliati, li uccideremo, li umilieremo. Allah è grande!»

Inoltre, i terroristi hanno sgozzato padre Nikolaj Kotelnikov, il sacerdote della chiesa ortodossa di Derbent che era stato raffigurato, come espressione del cristianesimo, seduto a un tavolo con un rabbino (ebraismo) e un mullah (islamismo) nel monumento alla fratellanza delle tre religioni nel centro della città.

L’operazione antiterrorismo, che ha visto uno scontro a fuoco tra il commando islamista e le forze speciali russe, si è conclusa con un bilancio di circa 20 morti tra cui 15 poliziotti, 46 feriti e 6 terroristi uccisi.

Sebbene non vi siano state ancora rivendicazioni ufficiali, il think tank statunitense Isw ritiene che il gruppo Wilayat Kavkaz, ramo del Caucaso settentrionale dello Stato islamico, «ha probabilmente condotto l’attacco coordinato contro chiese, sinagoghe e strutture di polizia nella Repubblica del Daghestan», perché la filiale russa dell’IS-K ’Al-Azaim Media ha pubblicato una dichiarazione in cui elogia i «fratelli del Caucaso» per aver dimostrato «le loro capacità».

Ieri è stato arrestato il capo del distretto di Sergokalinsky, Magomed Omarov, padre dei due figli che hanno partecipato all’attacco terroristico, deceduti durante lo scontro.

Durante l’interrogatorio Omarov avrebbe affermato che era a conoscenza del fatto che due dei suoi otto figli erano wahhabiti, ma di non averne mai condiviso l’ideologia e di aver smesso di frequentarli da molto tempo.

Nel frattempo, in alcuni villaggi e nella città di Pjatigorsk alcuni giovani di origine caucasica sono stati arrestati perché danzavano un ballo tipico del Caucaso – la Lezginka – per festeggiare le stragi di Makchachkala e Derbent.

Le reazioni

Non sono mancate le reazioni agli «attacchi barbari» del 23 giugno del patriarca Cirillo e del vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Dmitrij Medvedev. Il primo ha affermato che «non è una coincidenza» che l’attacco sia avvenuto nel giorno in cui i cristiani ortodossi osservano la Pentecoste, mentre l’ex presidente russo dal suo canale Telegram ha definito il «massacro in Daghestan» un «vile attacco terroristico, come l’attacco a Sebastopoli». «Tutto ciò che è accaduto in Crimea non è stata un’azione militare, ma un vile e atroce attacco terroristico contro il nostro popolo, commesso in una festività ortodossa, come il massacro in Daghestan, compiuto da estremisti. Per noi non c’è differenza tra il regime di Bandera e i pazzi fanatici».

Sempre domenica, poco dopo le 12, cinque missili Atacms sono stati lanciati per colpire la base aerea di Belbek, vicino a Sebastopoli, ma pare che, secondo le ricostruzioni del ministero della Difesa russo, il quinto missile sia esploso a mezz’aria sulla spiaggia di Uchkuyivka, provocando 150 feriti e cinque morti tra cui tre bambini e altri danni in zone limitrofe.

La reazione del Cremlino nelle parole del portavoce presidenziale, Dmitrij Peskov, è stata immediata e rivolta contro gli Stati Uniti, non solo per la produzione statunitense degli Atacms, ma anche per il sostegno tecnico molto complesso che richiedono quei missili che non può essere meramente ricondotto all’esercito ucraino.

Il ruolo di Omarov

In attesa di capire se le “conseguenze” russe per il caso di Sebastopoli saranno limitate a un’intensificazione degli attacchi nel territorio ucraino e nulla più – come è nella dottrina di difesa che statuisce una risposta più o meno simmetrica a uno stimolo esterno – la questione che forse è più politicamente interessante è il coinvolgimento, vedremo se solo indiretto, di Omarov nell’attentato in Daghestan.

Sinora Putin ha “controllato” queste repubbliche con pulsioni separatiste, lasciandole in mano a personaggi come Razman Kadyrov in Cecenia, capaci di gestire il contrastato rapporto tra politica moscovita e diaspora locale, evitando di minare la coesione territoriale della Federazione russa. Ma il Caucaso è un’entità geopolitica alquanto eterogenea, che richiede di evitare qualsiasi tipo di generalizzazione nelle analisi per soffermarsi, invece, sulle specifiche peculiarità locali.

Il caso del Daghestan ha messo in luce che anche un “sindaco” come Omarov, esponente locale del partito Russia unita, può avere un ruolo significativo (anche per non aver riferito della crescente minaccia terroristica locale) nell’ascesa jihadista, che sta sfruttando un fisiologico abbassamento della guardia del Cremlino nella lotta contro il terrorismo a causa dell’impegno militare richiesto in Ucraina.

© Riproduzione riservata