Prima il takhwin e ora il takwie. Dopo lo scoppio delle proteste popolari anti-governative nel 2011 e la conseguente guerra intestina ancora in corso, il dibattito pubblico siriano è stato a lungo segnato dalle accuse incrociate di tradimento della “causa”.

Ora, nel contesto seguito alla dissoluzione del potere incarnato per più di mezzo secolo dalla famiglia Assad, il dibattito è dominato da un’altra accusa speculare: quella di aver cambiato improvvisamente schieramento politico. Il takhwin, così in voga dopo il 2011, vuol dire “accusare l’altro di aver tradito”. Il takwie, adesso imperante, significa “accusare l’altro di aver cambiato direzione”, di aver compiuto una vera e propria inversione a U nell'immediato post-Assad.

«Persino le foto dei martiri (del regime), appese ovunque nelle città siriane, chiedono ora di cambiare la bandiera», afferma Farah Hawash in riferimento al fatto che nell’arco di poche ore quasi ovunque il tricolore identificato col regime è stato sostituito dall’altro tricolore, noto come “bandiera della rivoluzione”.

Il passaggio dalla “Siria degli Assad” alla “Siria liberata” è stato talmente improvviso e repentino - consumatosi in poco più di dieci giorni culminati all’alba dell’8 dicembre quasi con un non-evento rispetto alla portata della Storia - da lasciare quasi tutti disorientati, colti di sorpresa dopo anni caratterizzati invece dall’inerzia di posizioni cristallizzate lungo la trincea scavata tra “lealisti” e “oppositori”.

Nur Hariri, esprime al meglio la comprensibile confusione interiore di questi giorni: «Alcuni bruciano la bandiera rossa che ha accompagnato l’esistenza del vecchio regime e si adornano di verde. Mentre altri implorano: per favore, non bruciate la mia bandiera, questa non è del regime, lasciatemi la bandiera rossa e basta…».

La reazione di moltissimi siriani, dentro e fuori il paese, è stata infatti pavloviana: al cambiamento improvviso si è risposto in maniera improvvisa, guidati dal bisogno istintivo di sopravvivenza di schierarsi dalla parte “giusta”.

L’azione di trasformismo (takwie) evidente un po’ ovunque a Damasco, Homs, Tartus, Latakia, Hama è quella di chi ha di fatto sostituito le insegne del raìs Bashar al-Assad con quelle del qa’id (duce militare) Ahmad Sharaa, alias Abu Muhammad al-Jolani. Lo stesso Jolani appare il primo dei trasformisti siriani: ha dismesso i panni del leader militare jihadista basato nella dimenticata Idlib per vestire quelli di un “moderato” interlocutore degli occidentali. Il trasformismo è ancor più lampante da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Europea e Nazioni Unite, che per anni hanno gelosamente mantenuto l’etichetta di “terrorista” a Jolani e ai suoi miliziani di Hay’at Tahrir ash Sham (Hts) e che ora, ancor prima di cancellare col bianchetto il nome di Hts dalla lista nera, incontrano il nuovo signore di Damasco, seduto su quella stessa poltrona di legno intarsiato di avorio, in una delle sfarzose sale del palazzo sul Monte Qasiyun, su cui solo due settimane fa sedeva il presidente Assad.

Ci sono poi esempi apparentemente più celati di trasformismo ma non per questo meno significativi per i futuri sviluppi politici: c’è il faccendiere Abu Hisham, nella periferia meridionale di Damasco, che per anni ha di fatto gestito, assieme ad altri signori della guerra, la lucrosa distribuzione di aiuti umanitari tra la capitale e le regioni del sud del paese. A lungo Abu Hisham ha operato sotto la protezione del regime. Ma già domenica 8 dicembre ha compiuto la sua personalissima inversione a U (takwie): è sceso in strada a festeggiare, sventolando la “bandiera della rivoluzione” e dicendosi pronto a mantenere il suo ruolo di sensale nella «Siria liberata». La sua rete di conoscenze e i contatti nelle istituzioni, per ora rimaste grosso modo funzionanti, potrebbero consentirgli di ritargliarsi un posto al sole anche nella Siria post-Assad.

Anche in questa vicenda la Siria non è un’eccezione. E la sua storia attuale richiama passaggi della storia d’Italia di altri contesti. Per questo, invece di stigmatizzare il trasformismo, bisogna osservarlo da vicino come fenomeno sociale e politico tipico dei periodi di transizione epocali come quello in corso a est del Mediterraneo. Perché se è vero che il regime di Assad si è dissolto, la sua mentalità clientelare ed esclusivista nel gestire il potere rischia di rimanere a lungo radicata nella Siria “liberata”. Nur Hariri scrive a tal proposito: «Anche se la felicità per questo evento pervade tutti, molti si chiedono: davvero (il regime) se ne andrà così semplicemente? Scomparirà con questa banalità?».

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