Quando il vice di Trump si definisce “postliberale” allude a una scuola che muove una critica di fondo al liberalismo. Filosofi, riviste e Substack di riferimento di un senatore che vuole l’impossibile: tradurre il trumpismo in politica
La storia del “hillibilly” J.D. Vance venuto da una famiglia povera di scoto-irlandesi radicata negli Appalachi e cresciuto in Ohio, dove ai suoi era stata promessa l’approdo alla middle class e invece hanno trovato solo oppiacei, fucili, ignoranza, violenze domestiche e generale spaesamento esistenziale, è nota e certamente importante per questo momento elettorale.
Il miliardario newyorchese Donald Trump finora ha portato la torcia di quel mondo in rivolta, J.D. Vance è quel mondo in rivolta. Non è un passaggio di poco conto.
Ma la macchietta del forgotten man è soltanto un pezzo di questa storia. L’altro pezzo è che Vance è un uomo di idee, di letture, di ricerca filosofica e struttura culturale. E non soltanto perché ha fatto la law school a Yale, titolo che garantisce stipendio più che cultura.
Se gli “hillbilly” si rotolano programmaticamente nel fango e fanno un vanto del loro anti-intellettualismo – così li racconta spregiativamente chi “hillbilly” non è – allora Vance non è proprio un “hillbilly”, o forse ne è una versione emancipata. Non è nemmeno «un San Paolo per il Trump-Gesù», come dice Steve Bannon, ma se non altro ha passato diversi anni sui testi di René Girard – è stato introdotto al suo pensiero da Peter Thiel, che aveva ascoltato le sue lezioni a Stanford – e si muove con sufficiente agio fra i classici della filosofia occidentale.
Perciò l’idea che il candidato vicepresidente possa essere la persona designata per costruire un edificio culturale e politico sugli istinti distruttivi di Trump non è del tutto campata per aria. Si tratta di capire su quali pilastri potrebbe ergersi l’edificio, e su questo le ipotesi non sono del tutto ovvie.
Vance è il primo candidato a un ruolo esecutivo di primo piano che si è apertamente dichiarato “postliberale”, termine che in senso letterale allude a un qualche vago orizzonte dopo il liberalismo, ma che nell’ambito del dibattito dell’ultimo decennio circa indica un gruppo di pensatori che da posizioni conservatrici o perfino reazionarie ha sviluppato una critica radicale all’impianto del liberalismo contemporaneo.
Intellettuali come Patrick Deneen, D.C. Schindler, Peter Leithart, Adrian Vermuele, Gladden Pappin, Edward Feser, per citare soltanto alcuni fra i più noti, si sono dati da fare per dimostrare filosoficamente quello che gli elettori intuivano istintivamente quando hanno preso a votare nazionalpopulisti e radicali antisistema di ogni genere che promettevano di scardinare un ordine costituito che appariva ormai infiacchito.
L’essenza della critica dei postliberali è che il liberalismo crolla sotto il peso delle proprie contraddizioni. Non viene corroso da agenti esterni, più semplicemente non regge. E il punto preciso in cui non regge è quando si sforza di conciliare l’idea che nello spazio liberale convivono una pluralità di mondovisioni con il fatto che la società liberale così come si è articolata nella contemporaneità esige come biglietto d’ingresso nel dibattito l’adesione a una precisa concezione della persona umana.
In altre parole, dicono i postliberali, esiste un “uomo liberale”, dotato di alcune caratteristiche strutturali – una certa concezione della libertà, la postura individualista, l’impronta economicista ecc. – che è la premessa comune a cui tutti i partecipanti devono aderire per ingaggiare un dialogo che finisce per svolgersi fra versioni superficialmente discordanti di uno stesso nucleo antropologico condiviso. Nella società liberale si può mettere in discussione tutto, tranne l’idea liberale.
Nel dibattito la questione viene indicata come la “falsa neutralità” del liberalismo. Per dirla in modo baudelaireano, la più grande trovata del liberalismo è stata quella di convincere tutti che non esiste. La fissazione postliberale è mettere in discussione il soggetto sottinteso a un tipo di visione che non si pone già come una fra le varie opzioni in campo, ma come il perimetro di gioco.
Un esempio per capire meglio. I postliberali osservano che il liberalismo moderno ha prodotto due strutture fondamentali: lo stato e il mercato. Spesso vengono messe in contrapposizione, come se fossero espressioni antitetiche, mentre sono soltanto infiorescenze diverse nate dalla stessa radice. Seguendo questo ragionamento, nel mirino critico dei postliberali finiscono sia lo statalismo socialdemocratico che il mercatismo libertario, che in fondo non sono che figure del liberalismo, una di sinistra e l’altra di destra.
Dottrina sociale della chiesa
Poiché le critiche più severe si riservano sempre ai vicini, i postliberali gongolano particolarmente nell’attaccare i liberali di destra, che fino alla venuta di Trump erano noti come membri del partito repubblicano, cresciuti all’ombra del consenso Reagan-Bush.
La National Review, rivista ufficiale di quella stagione repubblicana, ha preso tristemente atto che la scelta di Vance è stata «l’ultimo chiodo nella bara del reaganismo».
Molti di questi pensatori sono cattolici. Non è un caso e anche Vance si è convertito, nel 2019, facendo una scelta che ironicamente lo ha proiettato molto (molto) lontano dall’ambientazione culturalmente arciprotestante e sostanzialmente atea degli “hillbilly”, la sua tribù.
L’individualismo protestante va a braccetto con l’antropologia liberale e non c’è bisogno di avere letto Max Weber per sapere in la Riforma e il capitalismo sono in rapporti intimi. I postliberali cercano di uscire dall’individualismo invocando la persona relazionale e comunitaria, rispolverando l’idea cattolica della dignità umana e appoggiandosi sulla dottrina sociale della chiesa come riferimento fondamentale.
E cercano di sfuggire dalla dialettica intra-liberale fra stato e mercato appellandosi al principio di sussidiarietà e alle teorie distributiste, ma senza mai rinunciare a delegare allo stato un ruolo di garanzia nella distribuzione del minimo e nell’erogazione di servizi che tutelano la dignità della persona. Fra i postliberali è molto più comune trovare ammiratori di Roosevelt che di Reagan.
Vance è stato uno dei primi politici di destra in Ohio a marciare a fianco dei sindacati per l’aumento del salario minimo, che lui vorrebbe estendere a livello federale a 20 dollari all’ora.
In politica estera i postliberali americani hanno istinti isolazionisti e perfino autarchici, perché diffidano profondamente della missione civilizzatrice che l’internazionalismo liberal cova in seno. In base a quella sono state fatti disastri, come la guerra in Iraq, e l’idea stessa che le interazioni con altri stati possano avere come fine ultimo il perfezionamento o addirittura l’esportazione delle strutture del liberalismo è per definizione in contrasto con i postliberali.
I polemisti
Il lavoro degli intellettuali postliberali è stato abbondantemente accompagnato da polemisti, giornalisti e pensatori vari che hanno fondato riviste e piattaforme Substack come American Affairs, The Journal of American Greatness, Lamp e The Postliberal Order, iniziative partite da una nicchia che nel tempo è diventata una comunità capace di plasmare la visione anche di un giovane senatore poi scelto per correre come vicepresidente.
Nella fase di smontaggio dell’edificio liberale, questo gruppo fa lunghi tratti di strada tenendosi felicemente per mano con il mondo dei postliberali di sinistra, con cui condivide ampiamente la pars destruens, ma le strade si dividono quando si tratta di proporre una visione.
Che cosa vogliono i postliberali? Questa è la parte più nebulosa e anche più pericolosa: l’aspirazione, dicono, è uno stato che non deve rivedere le sue strutture ma riempirle di un nuovo ethos, ispirato non già all’idea della competizione fra idee della vita buona, ma che volga lo sguardo verso i trascendentali, il Vero, il Bene, il Bello e così via. Insomma, il mondo postliberale cerca un ancoraggio più profondo di quello liberale nella definizione della natura umana, ma per realizzare una società che sia all’altezza dell’uomo postliberale rischia di scivolare dalle parti dello stato etico
Il libro più importante che definisce la parte critica al liberalismo, Why Liberalism Failed di Patrick Deneen è stato un testo decisivo degli ultimi decenni e ha suscitato un serio dibattito trasversale, anche Obama lo ha incluso fra i suoi consigli annuali di lettura. Il testo più significativo sulla parte costruttiva, invece, è Common Good Constitutionalism di Adrian Vermuele, tomo altrettanto interessante ma che suscita qualche perplessità sul tipo di società che prefigura.
Dopo che Trump è entrato in politica molti a destra si domandavano se qualcuno avrebbe mai potuto razionalizzare o almeno tradurre in qualche linea di pensiero ciò che lui stava realizzando per puro istinto ed egomania. Quattro anni di governo delirante e dilettantesco culminati nella coda eversiva dell’assalto a Capitol Hill sembravano aver chiuso ogni possibilità.
La scelta di Vance mostra che però non tutti forse sono rimasti oziosi in questo tempo.
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