«Sono venuti per farsi le foto e sono stati ricevuti con le pietre», racconta Carlos Fernández, uno dei giovani volontari che nei giorni scorsi a Paiporta ha aiutato la popolazione locale colpita da Dana: «Le persone sono disperate. Serve di tutto, dagli abbracci al latte»
«Le colpe sono di tutti, del presidente della Generalitat, del governo, dei suoi ministri e del re. C’è chi ha avvisato tardi, chi ha reagito in ritardo e altri che non si sono messi d’accordo nei soccorsi. Sono venuti per farsi le foto e sono stati ricevuti con le pietre». È il racconto di Carlos Fernández, un giovane volontario che, come tanti altri, si è rimboccato le maniche ed è andato a prestare soccorso nei paesini colpiti da Dana, nella provincia di Valencia. «La popolazione è arrabbiata con la classe politica. Ci hanno venduti, quando serviva una mano hanno inviato l’esercito in ritardo», prosegue.
Fernández è stato come volontario a Picanya e Paiporta, qui domenica 3 ottobre il re, il premier Pedro Sánchez e il presidente della Generalitat di Valencia Carlos Mazón sono stati accolti con insulti e lancio di oggetti e fanghiglia. Incontenibile la rabbia di chi ha perso un famigliare tra le oltre 217 vittime identificate finora o di chi ha perso quello che si è costruito con il sudore di una vita intera. «Ho visto gente che non ha più nulla. Mancano anche la luce e l’acqua potabile», racconta il giovane volontario.
Dopo gli insulti, il re Felipe VI e la regina Leticia si sono fermati a parlare con gli abitanti. Un momento di confronto non banale per una monarchia, quella spagnola, contestata da anni soprattutto per le “gesta” del re Juan Carlos I, accusato di aver frodato il fisco e per questo in autoesilio negli Emirati Arabi Uniti. Bisogna «comprendere la rabbia e la frustrazione», ha detto Felipe VI.
Pedro Sánchez, invece, è stato sfiorato da un bastone lanciato dalla folla: per lui è stato attivato il protocollo di sicurezza. «La priorità del governo è salvare vite umane, recuperare i corpi delle persone uccise dalla Dana e impegnarsi nella ricostruzione della provincia di Valencia e di tutte le zone della Spagna danneggiate», ha dichiarato dopo l’accaduto. «Non cambieremo rotta nonostante ciò che potrà accadere con elementi assolutamente marginali. Valenciani e spagnoli vogliono guardare avanti. Questo è quello che faremo». Secondo alcuni media spagnoli dietro l’attacco al premier socialista ci sono militanti dell’estrema destra spagnola.
La generaciòn de cristal
«Per arrivare ai paesi devi andare a piedi, le autorità non ti fanno arrivare in macchina. Il primo giorno abbiamo percorso otto chilometri a piedi per arrivare fino a Paiporta, eravamo carichi con i nostri zaini», racconta Fernández. Si è organizzato con un gruppo di amici e poi è andato da solo nei giorni seguenti.
Paiporta e Picanya sono trai i paesi più vicini a Valencia ed è lì dove si è concentrata la maggior parte dei volontari. Sui social, gli abitanti di altri paesi hanno chiesto ai volontari di non fermarsi nei paesi più vicini, ma di andare oltre. Era lì che c’era più bisogno di aiuto.
Inoltre, andare a piedi rende complicato anche il trasporto degli aiuti: ogni volontario riempie il suo zaino per quanto può. «Purtroppo andare a piedi è penalizzante, appena sta per fare buio i volontari tornano a Valencia. È inutile rimanere, non c’è luce e non c’è acqua», prosegue Fernández.
«All’inizio non c’era organizzazione tra i volontari: alcune strade erano piene di persone che davano una mano, ma altre rimanevano vuote. Facevamo di tutto: liberavamo spazio nelle case, spostavamo i mobili per strada, consegnavamo cibo e spalavamo il fango», racconta ancora scosso da ciò che ha visto: macchine accatastate una sull’altra che arrivavano fino al secondo piano delle case. Strade distrutte, negozi abbandonati. Supermercati e centri commerciali, dove le persone sono morte intrappolate, ancora pieni d’acqua.
«Le persone sono disperate, ti vedono ed è come se guardassero una divinità. Ti chiedono tutti aiuto. Serve di tutto, dagli abbracci al latte, dal pane ai pannolini. Ogni cosa che gli consegni è magico per loro, almeno non si devono muovere verso i centri di raccolta», racconta Fernández.
«Se non fosse per noi della generazione dei cristalli, così ci chiamano alcuni politici, sarebbe stato peggio. Siamo quelli che ci siamo impegnati di più», dice Fernández. La «generaciòn de cristal», di cristallo. Un termine coniato per la prima volta dalla filosofa Montserrat Nebrera: indica una generazione fragile, di cristallo appunto, perché ha ricevuto un’educazione iperprotettiva. Appellativo affibbiato ai nati a ridosso degli anni 2000.
Cristalli che in questi giorni stanno dimostrando di non rompersi così facilmente.
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