Dani Cushmaro, popolarissimo giornalista televisivo di Tel Aviv, aziona un detonatore che fa saltare una casa a Gaza. Per Haaretz «somiglia a una pulizia etnica», ma sui media europei si parla al massimo di “eccesso” di legittima difesa
Dani Cushmaro è il più popolare giornalista della tv israeliana con la maggiore audience, Channel 12. Di recente è andato in Libano embedded con Tsahal e per gentile concessione della brigata Golani ha offerto al pubblico un emozionante scampolo di tv-verità.
Brutalità in diretta
Azionando in diretta un detonatore a distanza ha fatto saltare in aria una casa nel villaggio di Ayta Ash Shab. Non è chiaro per quale motivo l’esercito israeliano avesse deciso di radere al suolo l’edificio, in apparenza uno dei pochi rimasti in piedi in un villaggio spappolato dalle bombe. Ma il motivo parrebbe più complesso di quello addotto dal giornalista, quando, dopo aver osservato la palazzina venire giù, si è voltato verso la telecamera e sorridendo ha detto: «Non fate arrabbiare gli ebrei».
A giudicare dal severo commento apparso su Haaretz, a fare arrabbiare almeno alcuni ebrei è stato Cushmaro. Un lettore l’ha descritto così: «Un rambo stupido e indottrinato… il tipo che declama: questa terra ci appartiene, dio ce l’ha data, sono tutti terroristi, nessuno di loro è innocente, l’Onu è un branco di antisemiti…».
Haaretz ha coraggio e qualità tali da meritargli il Nobel per la Pace, ma in questo caso sbaglia: sia pure involontariamente la diretta di Channel 12 ha reso un servizio alla verità. Reporter e combattente, violando il luogo comune per il quale il giornalista racconta i fatti e mai diventa egli stesso la notizia, Cushmaro ha dimostrato che in realtà i media sono parte attiva in questo e altri conflitti e talvolta concorrono a determinarne alcuni esiti.
Le omissioni dei media
Nella guerra di Gaza, per esempio, un’ampia quota di editorialisti occidentali è parsa spiritualmente embedded al fianco di Cushmaro. Non ha dinamitato casupole, ma ha concorso con i rispettivi governi a dinamitare la verità. E per quanto in genere non fosse entusiasta di Netanyahu e dei suoi ministri, nondimeno ha aiutato il premier e il suo stato maggiore a sottrarsi a sanzioni che forse (forse) li avrebbero costretti a condurre altrimenti le operazioni militari.
D’accordo, ”‘verità” è un termine da usare con cautela. Eppure bastano gli eventi occorsi di recente per concludere che pure se la verità non esistesse, certamente esistono omissioni così plateali che equivalgono a menzogne. Da giorni varie organizzazioni umanitarie tentano di attirare l’attenzione del mondo sui metodi feroci con i quali l’esercito israeliano sta spopolando il nord di Gaza.
Da qui l’editoriale di Haaretz intitolato: «Se somiglia ad una pulizia etnica, probabilmente è una pulizia etnica». In questo caso, la più massiccia e più disumana pulizia etnica di questo secolo. Tuttavia gli occidentali tacciono (Roma tra questi) oppure se la cavano mugugnando ammonimenti cui il governo Netanyahu ignora. Con alcune eccezioni i media di fatto lo assecondano. Qua e là danno notizia di efferatezze israeliane, ma non del senso complessivo dell’operazione, della sua magnitudine, dell’obiettivo strategico perseguito (tenersi il nord della Striscia, militarizzarlo, impedire che Gaza diventi in nuce il grumo di uno stato palestinese).
Queste vaghezze sono figlie della formula dietro la quale è barricato buona parte del sistema politico-mediatico occidentale: “Israele ha il diritto di difendersi, anche se sbaglia ad eccedere”. Dopo un anno di guerra il governo Netanyahu non è riuscito a cancellare Hamas ma l’ha decapitata, destrutturata, privata dei suoi lanciamissili, sicché nessun “diritto alla difesa” può giustificare quanto sta avvenendo nella Striscia.
Però l’opinionismo moderato non ardisce mai parlare di “pulizia etnica”, termine interdetto così come la sua traduzione giuridica, il reato di “genocide” (che è cosa diversa da “genocidio”); o come l’esistenza di un Apartheid israeliano, realtà non esattamente conciliabile con l’idea che Israele sia “l’unica democrazia dell’area” (una democrazia con annesso Apartheid, un po’ come una chiesa con annesso postribolo). Antisemita chi usa i termini proibiti? In questo caso è un antisemita l’editore di Haretz, Amos Schocken, che invoca sanzioni per porre fine alla guerra, ai progetti di pulizia etnica e al «crudele regime di Apartheid».
Il doppiopesismo occidentale
Non varrebbe la pena di occuparsi del silenzio di gran parte del nostro opinionismo se non rivelasse una sorta di smottamento illiberale in corso nella variegata area del moderatismo italiano. Per arrivare al punto ci aiuta il conduttore di una rassegna-stampa radiofonica che, replicando ad un ascoltatore deluso dai media italiani, l’ha rimbrottato così: «Se preferisce si abbeveri ai giornali russi e cinesi».
Questi ultimi obbediscono alla linea Xi-Putin, quale risulta dalla dichiarazione congiunta di Pechino (4 febbraio scorso). Dove si afferma che dev’essere ciascuno stato, in quanto espressione del popolo e della sua “cultura”, a decidere come configurare i diritti umani e la “democrazia”. Perciò quando Putin decide che l’Ucraina è la patria storica della Russia e la invade per sottometterla, nessun diritto internazionale può essere invocato per distoglierlo. Lo stesso relativismo è sottinteso da chi sorvola sulle condotte israeliane classificate come «crimini contro l’umanità» da corti internazionali: tanto più perché il governo Netanyahu nasce da libere elezioni e «combatte l’islamismo anche per noi, in difesa dei nostri valori comuni e universali. Dobbiamo offrire un sostegno senza eccezioni a un Paese democratico, amico e alleato».
Queste ultime sono parole di Manuel Valls, ex segretario del partito socialista francese, che così ci mostra un by-product della guerra di Gaza: l’aver portato allo scoperto il moderatismo double-face. Formalmente liberale e antifascista, in Italia spesso con un passato comunista, socialista o pannelliano, resta silente di fronte a quanto di più “fascista” e illiberale si possa immaginare: una gigantesca “pulizia etnica”. Per riuscire nell’acrobazia interpreta il conflitto secondo il dizionario Putin-Xi, dove “guerra di conquista” si dice “difesa”, “nostri valori” sta per “diritto fai-da-te”, “sicurezza” vuol dire dominio di un popolo limitrofo concepito in toto come “minaccia esistenziale”; e i concetti affermati da corti internazionali, ovvero da giudici in maggioranza espressi da stati di diritto liberali, vanno ignorati in quanto “la storia non si fa nei tribunali”. Così neutralizzati i verdetti di Icj e Icc, che certo non hanno i mezzi per “fare la storia” ma devono pungolare la politica a difendere i diritti fondamentali, il relativismo sino-russo-moderato ha il campo libero per allestire le sue apocalissi.
Va da se che, se democrazie e stati autoritari cominciano a convergere, la strada è spianata perché i primi si convertano in altro da se: democrature, nazionalismi maggioritari, capocrazie “à la Trump”, sistemi misti come la democrazia con Apartheid nel cortile. Dove conduce l’evoluzione del moderatismo?
Nel dubbio il New York Times ha ricordato il discorso di Haile Selassie alla Società delle Nazioni quando l’Italia fascista si gettò sull’Etiopia per conquistarla (1935). Sovrano dell’unico stato africano non colonizzato Selassiè ottenne dal proto-Onu sanzioni che però, di fatto inapplicate, l’anno dopo furono revocate. «Dio e la storia ricorderanno il vostro giudizio», concluse l’imperatore etiope. Non sappiamo dio (probabilmente Hamas e la destra israeliani sono più informati), ma la storia tenne a mente, a giudicare da quel che accadde in Europa negli anni successivi.
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