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La massa richiede organizzazione. E non esiste organizzazione senza élite. È questo uno degli assunti fondamentali della nostra modernità democratica.
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Nel dibattito odierno sulla democrazia liberale emergono, semplificando, due diverse posizioni, una che potremmo chiamare liberal-progressista e una nazional-populista.
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Entrambe, al fine di tirare acqua al proprio mulino politico, soffrono di una debolezza ideologica che le allontana dalla realtà. Il testo fa parte del nuovo numero di Scenari, in edicola e in digitale dal 27 gennaio.
La massa richiede organizzazione. E non esiste organizzazione senza élite. È questo uno degli assunti fondamentali della nostra modernità democratica. Considerata questa premessa, i cui presupposti fondamentali sono stati illustrati dai grandi pensatori italiani del primo novecento come Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels, il rapporto tra democrazia ed élite può assumere forme e interpretazioni diverse. Nel dibattito odierno sulla democrazia liberale emergono, semplificando, due diverse posizioni, una che potremmo chiamare liberal-progressista e una nazional-populista. Entrambe, al fine di tirare acqua al proprio mulino politico, soffrono di una debolezza ideologica che le allontana dalla realtà.
Modelli e rischi
La visione dei liberal-progressisti, soprattutto per come si è sviluppata negli ultimi decenni, è rigida, dirigista e centralistica. Tende all’epistocrazia, un regime politico in cui sono autorizzati a governare soltanto coloro che hanno un certo livello di scolarizzazione e un determinato compasso morale che segna il confine tra civilizzati e barbari. È una classe dirigente che non ha una particolare fiducia nella rappresentanza democratica.
Gli intellettuali di questa area hanno licenziato, negli ultimi anni, proposte per restringere il suffragio, tornare all’estrazione a sorte, bilanciare la democrazia con istituzioni tecniche. L’atteggiamento di questa porzione di élite è costruttivista e paternalista. I progressisti aspirano infatti a costruire la società e farlo attraverso leggi, quote, politiche attive che emancipino le minoranze. Essi non credono nel mutamento spontaneo delle istituzioni. Lo sviluppo, il progresso, l’educazione, i diritti devono essere creati dall’alto, dal potere che un tempo volevano decostruire e che oggi va esercitato con approccio pedagogico volto a perfezionare l’uomo, a raddrizzare il legno storto. Spesso questa missione incessante di emancipazione deve essere compiuta con la legittimazione del cambiamento attraverso scienza, la competenza, l’oggettività del razionalismo.
Il rischio di concepire le élite in questo modo è quello dell’auto-referenzialità, della perdita di contatto con il resto della società, il pericolo di una ossificazione della classe dirigente e di un ortodosso conformismo di chi deve selezionare la classe dirigente, di un dirigismo centralista che soffoca chi non si adegua al piano di emancipazione progressista.
Sull’altra sponda, invece, si pone il modello nazional-populista. Un modello che è tutto schiacciato sulla democrazia e sulla protesta anti-establishment, dove si crede che la domanda politica del popolo crei l’offerta dei partiti, e si pensa che spontaneamente un popolo omogeneo possa dare origine a un vertice capace di rappresentare gli interessi popolari e nazionali, dove si legge la sovranità in termini introversi spesso rifiutando i rapporti di forza con l’esterno. Anche in questo caso siamo ai confini dell’utopia. Il popolo non è mai omogeneo, ma sempre plurale e introvabile; gli interessi nazionali, per come è il nostro mondo, devono sempre mescolarsi a interessi differenti, economici, globali, sovranazionali oppure locali; nessuna classe politica è in grado di rappresentare gli interessi di tutti; e, soprattutto, sono sempre minoranze e imprenditori politici a creare la domanda politica attraverso una propria offerta di idee e suggestioni al popolo.
Il rischio di questa visione è quello della demagogia, dell’omogeneità impossibile della rappresentanza, della costruzione di una “nazione integrale” che non esiste nella realtà, di un eccesso di fiducia nel popolo per come è e quindi di una sottovalutazione dell’importanza della qualità della classe dirigente.
Gli avvertimenti degli ultimi anni hanno temprato, con la forza della realtà, entrambe le teorie. I progressisti hanno visto emergere la contraddizione dei molti dei loro programmi di emancipazione, hanno saggiato le resistenze interne alla società rispetto al costruttivismo e al paternalismo, sperimentato la circolazione delle élite sulla propria pelle incalzati dal nazional-populismo. Ma anche i nuovi tribuni del nazional-populismo sono stati piegati dallo stato di necessità. Hanno sperimentato l’interdipendenza dei sistemi politici, la sovranità integrata, il potere multilivello, la gabbia d’acciaio di burocrazia e finanza. Si può andare al governo come nuova classe dirigente, ma le dure leggi del potere non posso essere condonate.
Per sintetizzare, con le loro teorie, i progressisti pensano soltanto alla torre mentre i populisti vivono per la piazza. Se queste due interpretazioni del rapporto tra élite e democrazia non funzionano, esiste una via più realistica che deve essere esplorata.
La scienza delle reti
Ci viene ora in soccorso la scienza delle reti. La società del terzo millennio può essere pensata come una serie di nodi connessi tra loro, sia in verticale che orizzontale. I nodi sono le persone, le istituzioni, le aziende, le università. In ogni punto della rete, ci sono dei connettori, degli hub, che hanno un numero di relazioni e importanza nel network superiore agli altri. Le élite sono questi hub, nuclei attraverso cui passano molte connessioni e risorse.
Ciò che però emerge da una visione reticolare del potere è che da un lato i nodi si connettono sia in verticale che in orizzontale, cioè le reti si compongono di élite e sub-élite dispiegate a vari livelli di governo e su varie estensioni territoriali e si dispongono sia in modo paritario che gerarchico.
Dunque, la meccanica del potere non può essere immaginata né come la pensano i progressisti – cioè centralizzata in pochi nodi localizzati, omogenei, che inviano informazioni al resto della rete in modo unidirezionale – né come la vedono i nazional-populisti – ovvero espressa soltanto in orizzontale, concentrata tutta nella nazione o nella comunità, oppure con i nodi tutti della stessa dimensione, il popolo omogeneo e immaginario.
La circolazione delle élite
Questa teoria delle reti prestata al potere, per essere realistica, può essere agganciata a quella della circolazione delle élite, con cui Pareto dimostra ancora la propria attualità. Il sociologo italiano riteneva che la classe governante fosse preda di un movimento continuo, una sostituzione progressiva tra individui e gruppi in posizioni di comando. Per Pareto questa mobilità era positiva, evidenziava vitalità sociale e dinamismo politico.
Una élite, infatti, può inaridirsi ed estinguersi per mancanza di nuove energie, per eccessivo isolamento o per dissipazione di forza vitale. Senza un contatto, quale che sia, con il resto della società, un’aristocrazia di governo appare condannata: «Non è solo nel numero che certe aristocrazie decadono», scrive Pareto, «ma anche per la qualità, nel senso che in esse scema l’energia e si modificano le proporzioni dei residui che loro giovano per impadronirsi del potere e per conservarlo […] La classe governante viene restaurata non solo in numero, ma, ed è ciò che più preme, in qualità delle famiglie che vengono dalle classi inferiori, che recano in essa l’energia e le proporzioni dei residui necessari per mantenersi al potere. Si restaura anche per la perdita dei suoi componenti che maggiormente sono deceduti».
Fondata sul merito, l’idea della classe eletta non può non fare i conti col fatto che il merito è fattore contingente. Presente negli originari fondatori, può estenuarsi ed estinguersi negli eredi. Oppure, funzionale in particolari circostanze, tanto da legittimare la partecipazione alla cerchia di coloro che partecipano al dominio, una particolare qualità può cessare di esser tale in circostanze mutate. In conclusione, d’immobilità un’élite muore: come infatti la circolazione sanguigna è indispensabile alla vita dell’organismo, così il processo di continuo rinnovamento e di “circolazione” delle élites è necessario alla sopravvivenza del sistema politico. Le alternative al ricircolo sono la decadenza, il disordine e, in definitiva, la rivoluzione.
Questo discorso ci conduce, infine, proprio al pensare l’élite come una rete: non solo centralizzata, non solo verticale e non solo orizzontale, ma distribuita e multidimensionale. In altre parole, senza una cinghia di trasmissione dell’autorità e del mutuo riconoscimento come parti diverse della classe dirigente – dal consigliere comunale all’imprenditore di provincia, dal preside della scuola all’intellettuale metropolitano, al consulente manageriale, al banchiere globale e al capo partito –, la rete resta fragile e vulnerabile, soprattutto quando si presentano le emergenze o i cambi di paradigma. In altre parole, non esiste società avanzata senza élite, senza rapporti verticali, ma questa deve essere riconosciuta come più ampia, distribuita, plurale e ramificata di quanto di norma le due principali correnti di pensiero siano disposte a concedere. Senza legittimazione, senza autorità, senza riconoscimento reciproco, la fisiologica circolazione delle élite rischia di rallentare e degenerare, trascinando a fondo ciò che resta della comunità e dell’ordine politico.
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