La tecnica dell’esercito israeliano prevede l’uso di una forza spropositata in funzione deterrente. Analisti e veterani dicono però che l’approccio non genera sicurezza, ma alimenta altra violenza
La campagna militare israeliana su Gaza è stata messa in discussione più volte nell’ultimo mese. L’esercito è stato accusato di non avere un fine ben definito e l’unico obiettivo annunciato dal governo di Tel Aviv è l’annientamento di Hamas, di fare tabula rasa dell’organizzazione terroristica che ha causato gli orrori del 7 ottobre. Questo ha portato a una serie di bombardamenti senza precedenti (che hanno colpito la popolazione civile) e un’operazione militare via terra che dopo lunghi giorni di esitazione ha portato i soldati israeliani nei dintorni di Gaza City.
Per capire come si stanno muovendo le forze armate israeliane (Idf) bisogna guardare ai membri del gabinetto di guerra formato l’11 ottobre scorso. Ne fanno parte il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant, e l’ex capo di stato maggiore delle forze di difesa israeliane ed ex ministro della Difesa Benny Gantz. A questi si aggiungono due osservatori: Ron Dermer, ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, e Gadi Eizenkot (ex capo di stato maggiore delle forze armate dal 2015 al 2019).
Il nome di Einzenkot non è casuale, l’ex generale ha una lunga esperienza sul campo. Ha partecipato alla guerra in Libano del 1982, alla prima e alla seconda intifada, all’intervento sempre in Libano nel 2006, e a tutta una serie di operazioni militari israeliane su Gaza. Perché è stato scelto proprio il pluridecorato generale?
Eizenkot è passato alla storia come colui che ha ideato la dottrina Dahiya. Si tratta di una strategia militare di guerra asimmetrica basata su un uso eccessivo e sproporzionato della forza con l’obiettivo di distruggere infrastrutture civili per evitare che queste possano essere usate dai nemici. Il fine è anche quello della deterrenza: infliggere un grande danno (anche contro la popolazione) nel più breve tempo possibile in cambio di una sicurezza apparente. Secondo l’associazione fondata da veterani ed ex soldati dell’esercito israeliano, Breaking the silence, questa potrebbe essere la strategia che si sta perseguendo a Gaza. Ciò spiega l’attacco a scuole, edifici istituzionali e ad altre strutture civili – in violazione del diritto internazionale – e la grande quantità di missili sparati sulla Striscia in così poco tempo (seimila bombe nei primi sei giorni).
Il precedente
La dottrina prende il nome dall’omonimo quartiere libanese attaccato dalle forze israeliane nel 2006 dopo una serie di tensioni con Hezbollah, culminate con la cattura da parte del gruppo paramilitare sciita di due soldati israeliani. L’evento ha portato a una escalation del conflitto e la rappresaglia consisteva nella distruzione del sobborgo Dahiya, considerato il quartiere generale di Hezbollah e luogo di residenza del leader Hasan Nasrallah.
In 34 giorni di guerra l’aviazione ha preso di mira settemila obiettivi nella fascia sud della capitale, colpendo 130 villaggi, uccidendo 1.100 persone (un terzo bambini), radendo al suolo 10mila abitazioni e danneggiandone oltre 22.500. L’operazione militare ha causato 1.2 milioni di sfollati e un danno economico per il Libano di quasi 3 miliardi di dollari.
A formalizzare la dottrina è stato proprio il generale Eizenkot in un’intervista al quotidiano Yedioth Ahronoth nel 2008, quando era a capo della divisione nord dell’esercito. «Quello che è successo nel quartiere Dahiya di Beirut nel 2006 succederà in ogni villaggio da cui Israele viene colpito», aveva detto il generale. «Applicheremo una forza sproporzionata sui villaggi e causeremo grandi danni e distruzione. Dal nostro punto di vista, questi non sono villaggi civili, sono basi militari», ha aggiunto, specificando che si tratta di «un piano» già approvato. Secondo diversi analisti, la stessa dottrina è stata utilizzata nell’operazione militare Cast lead avvenuta a Gaza nel 2014. All’epoca il ministro dell’Interno dell’allora governo Netanyahu, Eli Yishai, disse: «Gaza deve essere distrutta così capiscono che non devono combattere con noi».
Perché non funzionerà
Basta ripercorrere i fatti per capire che in realtà la dottrina non sia così funzionale agli obiettivi che Israele vuole raggiungere. I fatti del 7 ottobre dimostrano che la brutale violenza precedente non ha agito da deterrente. Questo perché Hamas, nonostante la sofferenza del popolo palestinese, non ha in cima alle sue priorità la vita dei civili, che vengono invece usati come scudi. Provocare un ingente danno alla popolazione locale rischia di generare l’effetto opposto: allargare il consenso del gruppo. I giovani nati nei primi anni duemila hanno vissuto ciclicamente conflitti cruenti (2008, 2012, 2014, 2021), con brevi periodi di tregua dai massicci bombardamenti. Hezbollah non ha deposto le armi, ma si è rinforzata e lo dimostrano gli scontri lungo il confine con Israele. Inoltre, è una strategia militare che non paga neanche all’esterno.
Da giorni la comunità internazionale sta chiedendo a Tel Aviv di rivedere la sua strategia e tutelare i civili. Breaking the silence ha sollevato il dibattito pubblico sull’efficacia della dottrina in una serie di post pubblicati su X, dopo aver ottenuto testimonianze e pareri da diversi militari israeliani. «L’ultimo mese ha dimostrato, ancora una volta, che questo approccio ci ha portato zero sicurezza. Non è pensato per essere decisivo, ma per rimandare e scoraggiare il prossimo, inevitabile, round. Sembra che il nostro governo stia scegliendo di ripetere, anche se con maggiore intensità, ciò che ha fatto senza successo nei round precedenti. Lo stesso portavoce dell’Idf ha affermato che: “L’enfasi è sul danno e non sulla precisione”». Anche questa volta, la dottrina Dahiya oltre che provocare un dramma umanitario incalcolabile è fallimentare.
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