Mentre i dati raccolti nelle presidenziali americane si stanno solidificando, andando verso una netta vittoria di Donald Trump superiore alle aspettative, ci sono vari elementi da raccogliere per capire come sono andate le cose.

Intanto, con la sconfitta annunciata dai principali network del senatore Sherrod Brown in Ohio, si può dire con ragionevole certezza che i repubblicani godranno della maggioranza al Senato, necessaria per approvare le nomine alle varie cariche federali senza bisogno di trattare con i democratici.

A sorprendere gli analisti è senza dubbio la possibilità che il tycoon possa essere il primo candidato repubblicano a prevalere anche nel conteggio del voto popolare e che quindi possa prevalere in modo più netto rispetto allo shock del 2016. Di sicuro però questa possibilità, per quanto non in modo univoco, era stata prevista dai sondaggisti che vedono quindi vendicato il loro lavoro che poteva apparire, in prima battuta, eccessivamente sbilanciato verso il ritorno al potere dell’ex inquilino della Casa Bianca.

Ad aver fallito quindi è la campagna democratica che non è riuscita a ricucire la coalizione che aveva eletto Joe Biden nel 2020, spezzata a livello decisivo dalle defezioni dovute al sostegno dato dall’Amministrazione al governo di Benjamin Netanyahu nella sua guerra prima contro Hamas a Gaza, poi contro Hezbollah in Libano.

Ma la perdita di questo importante segmento che probabilmente costerà la conquista del Michigan non spiega da sola una disfatta che rischia un cappotto in tutti e sette gli stati in bilico a cominciare dal North Carolina, dove pure i repubblicani erano azzoppati da un candidato catastrofico come Mark Robinson alla carica di governatore: un afroamericano di estrema destra scoperto in una chat pornografica dove esprimeva il suo essere “un nazista nero”. Il tycoon ha prevalso di sette punti.

La questione decisiva è nascosta nel voto dei cittadini di origine latino-americana, troppo a lungo dati per scontati dalla coalizione dem. Un lavoro sotterraneo fatto in questi anni dalla campagna di Donald Trump che ha portato i repubblicani a farsi strada in questo gruppo che era stato scoperto decenni fa da George W. Bush come potenziale serbatoio di voti conservatori.

Un esempio significativo è rappresentato da Ted Cruz, senatore repubblicano del Texas di origini cubane che nel 2018 aveva perso tra questi elettori per 29 punti percentuali. Uno spostamento che si compie e che con tutta probabilità costa ai democratici la sconfitta ormai probabile in tutti e sette gli stati in bilico.

A consolare i democratici non basta l’unico elemento che fa loro sperare, la probabile conquista della maggioranza alla Camera con una stima conservativa di 219 deputati con cui potrebbero limitare le ambizioni trumpiane nel primo biennio.

La vaghezza di Harris

Ad aver contribuito a questo stato di cose, è stata anche la vaghezza della candidata Kamala Harris sulla maggior parte delle tematiche, dalla transizione energetica all’inflazione, passando per la riforma della Corte Suprema, il sostegno a Israele e il controllo dell’immigrazione, sul quale non ha seguito le indicazioni dei consulenti politici provenienti dal partito laburista britannico, ovverosia di dare un messaggio sì di accoglienza, ma anche di dura lotta ai trafficanti di esseri umani.

Sono mancati insomma quei tratti distintivi con cui far percepire una rottura, ma anche la mancanza di una ricetta onnicomprensiva per l’economia che invece il suo avversario sembra aver “già in mente”, probabilmente sparandola troppo grossa come suo solito. Eppure, pur con posizioni estremiste che ormai sconfinano verso il nazional-conservatorismo, la sua proposta è apparsa una rottura radicale che possa riportare le lancette indietro neppure di troppi anni, soltanto a quel 2019 dove i prezzi dei beni di consumo e del carburante erano più bassi.

Una nostalgia che nelle urne si è rispecchiata con una vittoria netta del neo-trumpismo, senza tenere conto stavolta di potenziali problemi cognitivi che il probabile neopresidente eletto ha mostrato talvolta in alcuni comizi.

E stavolta non c’è nemmeno l’attenuante della vittoria ottenuta tramite la maggioranza del collegio dei grandi elettori, ma solo una grande amarezza per una serie di crisi che, in modo simile a quanto avvenuto per la presidenza di Jimmy Carter nel 1980, sono state troppo gravose per un presidente come Joe Biden e per la sua vice Kamala Harris, catapultata nell’agone politico nazionale forse troppo tardi per invertire un trend che soffia verso destra.

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