La società, che dovrebbe investire in Italia, non è tra quelle all’avanguardia nel settore delle auto elettriche e ibride. Adesso Pechino ha varato un piano d’aiuti per i produttori automobilistici di stato che la interessa direttamente
Secondo quanto trapelato negli ultimi giorni da fonti vicine al governo Meloni, in pole position tra le aziende cinesi che l’esecutivo sta provando a convincere ad aprire in Italia una fabbrica di veicoli a nuova energia (Nev) c’è il colosso di stato Dongfeng.
Diciamolo subito, la casa di Wuhan – metropoli tristemente famosa come focolaio di Covid-19, ma che prima ancora è stata la capitale dell’auto, la Detroit cinese – non è tra quelle all’avanguardia nella produzione di Nev, ovvero di macchine elettriche o ibride. È rimasta indietro sia rispetto al gigante privato BYD (oltre 3 milioni di unità consegnate nel 2023, +61,9 per cento su base annua) sia ad altre aziende dinamiche come XPeng, Nio o Li.
Nata come fabbrica di camion nel 1969 – in piena Rivoluzione culturale – Dongfeng (letteralmente “vento dell’Est”, dōng fēng) è cresciuta grazie alle joint-venture con le nipponiche Honda, Nissan e Peugeot Citroën, dalle quali nel 2021 arrivava ancora il 79 per cento delle sue vendite complessive).
Dongfeng oggi è costretta a farsi largo in un panorama affollato da decine di startup innovative. Eppure la sua rincorsa potrà essere favorita da un potentissimo alleato: il partito-stato.
L’obiettivo dichiarato da Giorgia Meloni e dal suo ministro dell’industria e del made in Italy, Adolfo Urso, è sempre quello – a dir poco ambizioso – di portare la produzione in Italia dalle 800 mila unità del 2023, a 1,3 milioni. Tutto resta legato a Stellantis (e alle resistenze dell’amministratore delegato, Carlo Tavares, all’arrivo di un produttore cinese che potrebbe fare concorrenza alla sua Leapmotor) che, in questo scenario, dovrebbe sfornare 1 milione di auto, quota raggiunta per l’ultima volta nel 2017.
Per quanto riguarda invece l’agognato investitore cinese, si parla di partire con 100mila auto all’anno. L’interesse di Dongfeng è stato confermato nelle scorse settimane da Qian Xie, che ha dichiarato: «In Italia puoi sfruttare tutta la forte tradizione che il Paese ha nel settore automobilistico». Il responsabile delle operazioni per l’Europa ha aggiunto che nonostante Dongfeng crede «fortemente» in un futuro elettrico, in Italia la casa automobilistica si concentrerebbe sulle auto ibride.
Componenti made in Italy
A fine mese una delegazione tecnica tornerà in Cina, dove incontrerà altre case automobilistiche, ha annunciato qualche giorno fa Urso, aggiungendo: «Sia ben chiaro, non si fa tutto in un giorno né in un mese. Ci vuole tempo e costanza di azioni».
Il governo sarebbe pronto a entrare nell’azionariato dell’investitore cinese automotive con una quota di minoranza. E chiede inoltre che le aziende italiane della componentistica abbiano un ruolo importante: sistemi di infotainment made in Italy, così come quelli di raccolta e gestione dei dati. La parola d’ordine è “fabbricate in Italia”, non “assemblate in Italia”.
In questo modo – con almeno il 45 per cento della componentistica autoctona – i modelli prodotti in Italia potrebbero nello stesso tempo garantire gli incentivi governativi alla compagnia cinese, e favorire l’occupazione.
Secondo uno studio pubblicato il mese scorso da AlixPartners, nel 2030 i brand cinesi dell’automotive avranno conquistato oltre il 70 per cento del mercato interno e circa il 33 per cento di quello globale, vendendo all’estero 9 milioni di veicoli. I dati sulle vendite degli ultimi anni e le stime per i prossimi dicono che la Cina sta rapidamente prendendo il posto occupato in passato dai produttori occidentali, nipponici e sudcoreani. Per le aziende dell’intera filiera è il momento di prenderne atto e cercare di sfruttare le opportunità di questa rivoluzione legata allo sviluppo e alla diffusione dei Nev.
Guerra dei prezzi
Assieme a FAW e Changan, Dongfeng è uno dei tre giganti di stato del settore automotive. Tutti e tre sono rimasti indietro nella corsa alla produzione degli Ev, che in termini sia di volumi che di varietà di modelli è dominata da BYD. I dati relativi alle vendite del 2023 sembrerebbero segnalare che Dongfeng abbia accumulato un ritardo inferiore.
L’anno scorso i veicoli a nuova energia hanno rappresentato il 21,6 per cento delle vendite di Dongfeng, il 18, 6 per cento di quelle di Changan e il 7,1 per cento di quelle di FAW. Questo in un paese nel quale, il mese scorso, le unità di Nev venduti hanno per la prima volta superato quelle dei veicoli con motore a combustione interna (Ice) e nel quale la media di Nev sul totale di veicoli venduti dai costruttori nazionali è del 31,6 per cento.
Tuttavia la maggiore percentuale di Nev sul totale delle vendite di Dongfeng è dovuta al crollo di quelle dei suoi veicoli economici con motori Ice prodotti in joint-venture con Nissan, dimezzatesi da 1,3 milioni nel 2019 a 723 mila l’anno scorso. Insomma, quella di Dongfeng in Cina somiglia molto alla parabola di Stellantis in Italia! Della quale ha una quota dell’1,5 per cento, mentre nell’aprile scorso Paolo Berlusconi ha acquisito il 10 per cento di Df Italia, rivenditore ufficiale dei SUV elettrici di lusso del gruppo.
Spinti dai generosi incentivi governativi all’acquisto di Nev e dai molteplici divieti che nelle metropoli scoraggiano l’utilizzo di macchine con motori Ice, i consumatori cinesi stanno sostenendo la rivoluzione della mobilità elettrica, dove però le aziende di stato (Soe) rischiano di accumulare un ritardo incolmabile. Un gap che vede le sue origini nell’avversione al rischio delle Soe, nelle loro joint-venture con partner (tedeschi e nipponici) anch’essi in ritardo negli Ev, e nei mandati a termine dei loro amministratori delegati, che rendono complicato programmare strategie industriali di lungo periodo.
Le direttive di Xi
Ma nella Cina di Xi Jinping, nella quale alle aziende di stato è stato affidato un ruolo “guida” dei settori strategici, ciò è inammissibile. Per questo il governo ha appena annunciato il sostegno pubblico a Dongfeng, FAW e Changan. Secondo Zhang Yuzhuo, presidente della Sasac (l’ente che amministra le aziende di stato) saranno introdotti nuovi criteri che, più che ai profitti, punteranno su tecnologia, quote di mercato e potenziale di sviluppo del trio.
Nel tentativo di fargli recuperare il terreno perduto negli ultimi anni, Dongfeng e le altre potranno indebitarsi, mettendo più facilmente a segno acquisizioni industriali e abbassando i prezzi dei loro modelli, il che accelererà la ristrutturazione di un mercato affollato da decine di produttori e centinaia di modelli: i pesci piccoli saranno mangiati da quelli grossi.
Oltre all’aumento dei dazi dell’Unione europea sulle importazioni di Ev prodotti in Cina (il cui ammontare, per i successivi cinque anni, verrà stabilito entro novembre), l’altro motivo che spinge le cinesi a localizzare la produzione nell’Ue è la feroce guerra dei prezzi in corso in Cina da due anni, con la quale si stanno contendendo quote di mercato. Per questo motivo, seppur più economici, gli Ev cinesi “made in Eu” non saranno a prezzi stracciati, perché i brand cinesi devono compensare le perdite in patria con i profitti all’estero.
Subito dopo l’annuncio dei nuovi criteri di valutazione da parte della Sasac, Dongfeng ha lanciato un programma di sussidi per la sostituzione dei veicoli, che copre più di 50 modelli e ammonta a un valore totale di decine di miliardi di yuan. La sua nuova berlina 007, prodotta dal suo marchio di veicoli elettrici eπ, è stata lanciata a marzo 2024 a 159.600 yuan (poco più di 20.000 euro). A questo modello è stato applicato anche un ulteriore sconto di 30.000 yuan per gli ordini anticipati.
Inoltre – in una Cina in cui la la cosiddetta “ansia da ricarica” (anxiety range) sta trainando la riscossa delle ibride (Phev: batteria più combustibile), le cui vendite stanno crescendo molto di più delle elettriche – Dongfeng può già vantare un primato, quello della sua Voyah Free, che è il Phev con la maggiore autonomia a batteria, 318 chilometri dichiarati dalla casa di Wuhan. Insomma qualcosa si sta muovendo anche nell’ex fabbrica maoista di camion, che, queste sono le voci, scommetterebbe proprio sull’Italia per costruire un suo “hub europeo”.
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