Women Wage Peace, fondata in Israele nel 2014, e di Women of The Sun, nata nel 2021 in Palestina, sono due realtà che lavorano insieme per non cedere all’odio. E per aprire alle donne una strada nell’arena politica e nei negoziati
Nel frastuono assordante della guerra si muove il fruscio di chi lavora per la pace. Un processo attivo da tempo, nell’ultimo anno molto più intenso e complicato, di cui le donne si fanno portatrici affrontandone tutte le complicate sfaccettature.
Sono le donne di Women Wage Peace, fondata in Israele nel 2014, e di Women of The Sun, nata nel 2021 in Palestina. Due realtà che lavorano insieme per non cedere all’odio e creare consapevolezza, cercando di aprire alle donne una strada nell’arena politica e nei negoziati. Donne che raccolgono i pezzi di ciò che rimane dalla distruzione che travolge ogni cosa attorno a loro. Creano legami, dentro e fuori dalle loro comunità, cercano di ricomporre, ricucire, ricostruire.
Una guerra decisa da uomini
«Women of the Sun è nata da un’esigenza delle donne palestinesi di avere uno spazio dove esprimere un potenziale politico, sociale ed economico», racconta la fondatrice e direttrice Reem Hajajreh. È madre di due bambini e vive nel campo profughi di Dheishesh, a sud di Betlemme. Qui, in meno di mezzo km quadrato, abitano circa 16mila persone palestinesi. «È come una prigione e già qui dentro la gente affronta sfide sociali quotidiane.
Per questo lavoriamo su due aspetti: quello economico, aiutando le donne a essere finanziariamente indipendenti e quello politico, per dare loro spazio e implementare la Risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che impone il rispetto dei diritti delle donne e il loro coinvolgimento nella risoluzione dei conflitti, rendendole parte dell’arena politica, dei negoziati e dei processi di pace. Ad oggi contiamo circa 3mila sostenitori in West Bank, Gaza e Gerusalemme est. Siamo donne comuni, non affiliate ad alcun partito, ma vorremmo essere parte della politica per portare la nostra voce».
Rita Brudnik-Erlich, collaboratrice dei progetti di Women Wage Peace, ha vissuto in Unione sovietica fino all’età di 9 anni, per poi tornare in Israele e proseguire la sua vita a Ramla, in un contesto multiculturale che le è rimasto dentro come il più grande dei valori. «Il gruppo è nato dal basso durante l’ennesima operazione militare. Alcune donne si sono piazzate davanti al Parlamento chiedendo di tornare a sedersi ai tavoli dei negoziati, e questa è rimasta la nostra richiesta da quel giorno». Oggi Women Wage Peace conta circa 50mila sostenitori. «Vogliamo essere parte attiva nei processi di pace in un conflitto in cui le decisioni vengono prese per la maggior parte soltanto da uomini. Nessuno parla del ruolo cruciale delle donne in questi contesti e non siamo mai abbastanza rappresentate».
Le due organizzazioni si sono riunite per spezzare il ciclo di violenza che ha risucchiato tutto attorno a loro. Anche perché, sottolinea Hajajreh, a pagare il prezzo più alto delle guerre sono proprio loro: anziani, bambini, donne. «Siamo più della metà della società eppure ci escludono da qualunque ambito politico. Nessuno ci ascolta, nessuno chiede la nostra opinione». Nel 2022 hanno lanciato la “Mothers Call”, l’appello delle madri, ufficializzando la loro collaborazione, ma da tempo lavoravano insieme, non senza difficoltà. Già trovare un luogo in cui potersi incontrare, donne israeliane e palestinesi, era complicato. «Lavoriamo su due fronti di pace: quello all’interno della nostra comunità e poi quello nella collaborazione con l’altra parte», continua Hajajreh. «Abbiamo bisogno di creare influenze positive nelle nostre rispettive aree e poi lavorare insieme per unirci», prosegue Brudnik-Erlich.
Costruttrici di pace
L’ultima volta in cui hanno partecipato insieme a una marcia per la pace è stato il 4 ottobre 2023, quando in migliaia hanno camminato fino al Mar Morto. Appena tre giorni dopo c’è stato l’attacco del 7 ottobre in cui sono state uccise tre donne di Women Wage Peace, tra cui anche la co-fondatrice Vivian Silver.
Da allora tutto è crollato, non hanno più potuto incontrarsi di persona, ma il loro legame è divenuto più profondo, alimentato dalla preoccupazione e dalla consapevolezza sempre maggiore di una pace necessaria. Nel corso dei bombardamenti su Gaza, 30 donne di Women of the Sun sono state uccise. «Delle altre non sappiamo molto, perché continuano a essere evacuate da un posto all’altro. Noi proseguiamo con attività anche nelle aree di evacuazione e nei campi profughi per parlare, attivarsi anche in modo creativo, curare i traumi, permettere di esprimersi».
Nell’incontro “Donne costruttrici di Pace in Medio Oriente” all’Università Bicocca di Milano, Hajajreh e Brudnik-Erlich hanno condiviso le loro testimonianze, intrecciando le diverse esperienze e riflessioni su una pace che oggi sembra irraggiungibile ma che dentro di sé coltivano come un fiore delicato. Le due organizzazioni infatti hanno già ricevuto diversi riconoscimenti, come la candidatura al Premio Sacharov 2024 e al Premio Nobel per la Pace. Inoltre Reem Hajajreh e Yael Admi, co-fondatrice di Women Wage Peace, sono state inserite tra le Donne dell’anno 2024 dal Time.
«Non c’è bisogno di parteggiare da una parte o dall’altra, bisogna essere pro-pace, è qui che bisogna investire», dice Hajajreh. «Noi non vogliamo sentirci ripetere la condizione in cui ci troviamo, quella la conosciamo già, abbiamo bisogno di soluzioni. E quando ci sono le donne, significa che ci sono persone che si prendono cura delle loro comunità, delle famiglie, dei bambini. E questo è il motivo per cui desideriamo donne influenti che cerchino strade non violente per lavorare sui percorsi di pace, influenzando il potere per andare in questa direzione, per non ripetere mai più ciò che è accaduto l’anno scorso. Siamo esauste di perdere i nostri cari. Siamo persone che non hanno nulla per difendersi, per essere resilienti. Noi donne, poi, abbiamo solo il nostro cuore e le nostre mani. Vogliamo solo essere salvi e vivere le nostre vite».
«Stiamo reclamando il nostro futuro e quello dei nostri figli», continua Rita. «Perché questo non è il futuro che vogliamo. Proveremo a influenzare tutti i decision makers che possiamo, non importa di che parte siano, per portare stabilità nella regione. Io ho due bambini, il più grande ha 13 anni e il più piccolo 11. Il mio sogno per loro è che non debbano più fare il servizio militare ma magari un servizio civile in cui scegliere come essere utili alla comunità. Vorrei che i giovani israeliani e palestinesi si incontrassero davvero, perché se non ti conosci di persona l’altro ti sembrerà sempre il male».
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