La Francia non ha mai amato il centro. Emmanuel Macron è stato un’eccezione determinata da circostanze particolari, l'esigenza di fermare l'ascesa della destra estrema e la crisi della sinistra tradizionale, leggi il partito socialista.
Non deve sorprendere: gli stessi termini di destra e sinistra, coniugati alla politica, sono stati coniati a Parigi dopo la Rivoluzione del 1789 per indicare le posizioni occupate all'Assemblea nazionale Costituente rispetto alla sedia occupata dal presidente, da una parte i deputati inclini a un compromesso e alla trasformazione graduale dell'Ancien Régime, dall'altra i rivoluzionari. Nei cromosomi dell'Esagono si è perpetuata un'abitudine alla contrapposizione netta, specchio di una diversa concezione del mondo che ha toccato, spesso, punte estreme.
La testa tagliata al re, i moti del '48, la Comune di Parigi, il Fronte Popolare di Léon Blum, il Sessantotto. Sul lato opposto, la Vandea, la Restaurazione, Napoleone III, il regime collaborazionista del nazismo di Pétain a Vicky, l'ostinata tentazione coloniale anche fuori tempo massimo. Un pendolo in continua oscillazione.
La Quinta Repubblica, salvo appunto l'attuale inquilino dell'Eliseo, non ha fatto eccezione. Il conservatorismo gollista, e anche assai sciovinista, dominatore della prima fase era saldamente ancorato ai valori del libero mercato. L'alternanza segnata da Mitterrand un tentativo di redistribuzione del reddito in chiave egualitaria e valga per tutte la legge sulla tassa alle grandi fortune. La posizione intermedia, mai pervenuta. O, quando pervenuta, soffocata da una legge elettorale implacabilmente nemica di ciò che sfugge al dualismo. Valga per tutti l'esempio di Francois Bayrou, noi diremmo un democristiano, che nel 2007 riuscì a racimolare quasi il 19 per cento dei consensi all'elezione presidenziale e alle successive legislative mandò in parlamento solo tre dei suoi.
Ah la legge elettorale uninominale a doppio turno! Croce, perché alla fine non riflette la vera rappresentanza sul territorio, e delizia perché garantisce la governabilità. Un meccanismo che stritola i terzi, i quarti, i quinti e che rinvia la resa dei conti alla seconda tornata, nel caso attuale al 7 luglio, quando solitamente punisce i candidati più radicalmente estremi, come sanno bene sia Marine Le Pen sia suo padre Jean-Marie. I francesi al primo turno scelgono e al secondo, a cui accedono solo coloro che hanno ottenuto almeno il 12,5 per cento dei voti degli elettori registrati nelle liste, scartano. Solo pochissimi fortunati riescono nel colpo del seggio al primo turno, quando serve il 50 per cento.
Arbitro impotente
L'azzardo delle elezioni anticipate deciso da Emmanuel Macron è comprensibile solo se si tiene conto di queste norme che non necessariamente premiano chi ottiene il consenso più largo ma sorridono a chi è capace di costruire alleanze nella settimana che corre tra le due votazioni.
In vista del primo turno il presidente ha agitato lo spauracchio delle estreme troppo estreme ponendo sé stesso e la sua formazione come punto di equilibrio. Gli è andata bene solo in parte. È cresciuto rispetto alle Europee di inizio giugno, non nel modo determinante che si sarebbe auspicato.
Fiutando il vento di destra, ha preferito addirittura demonizzare assai più il Fronte popolare del partito di Marine sperando che i francesi riconoscessero in lui quel baluardo repubblicano e antifascista che ha funzionato in almeno tre occasioni, 2002, 2017 e 2022.
Ora rischia di essere l'arbitro impotente che deve decidere non già di una sua impossibile vittoria ma del successo in ogni caso di un suo avversario. Attraverso opzioni di desistenza può mettere a disposizione, in cambio di favori in alcuni collegi in cui i suoi sono competitivi, il gruzzolo del suo consenso alla sinistra tanto demonizzata finora nonostante in realtà sia una compagine eterogenea che va dai moderati di Raphael Glucksmann agli integralisti del tribuno Jean-Luc Mélenchon.
E sarebbe costretto, nel caso, a ripudiare la politica liberista perseguita nei sette anni all'Eliseo tornando, almeno un po', all'antico, quando era socialista e membro del governo di François Hollande. Ha già affermato a urne ancora aperte di essere a favore di una «larga alleanza chiaramente democratica e repubblicana» in funzione dunque anti Le Pen e anti Bardella, il suo giovane delfino.
Cosa significherà nel concreto lo vedremo nei prossimi giorni. Ma pare un’apertura al minimo ai candidati di sinistra moderata.
Ritorno all’ordinario
Comunque vada il 7 luglio, un dato è già certo.
Dopo l'effimera infatuazione centrista, la Francia torna con decisione nell'alveo della sua storia, sposando le posizioni estreme e, anzi, acuendole rispetto al recente passato. Con i de Gaulle, i Pompidou, i Giscard d'Estaing, gli Chirac, i Sarkozy, i Mitterrand, gli Hollande, c'era un mutuo riconoscimento dell'avversario pur se stava dall'altra parte della barricata, in un'accettazione leale del confronto democratico. Non pare così ora, in un Paese lacerato e intollerante, sconvolto in varie fasi da una strisciante guerra civile (non del tutto)incruenta. Periferie contro città, ma anche campagna contro città, francesi autoctoni contro francesi immigrati.
Per non parlare di una rinascente ideologia che ridefinisce, su basi vecchie e nuove, il confronto tra destra sinistra. Esiste una Francia bianca, impaurita e impoverità, indisponibile a riconoscere gli stessi diritti a cittadini di diversa origine. Ed esiste una Francia multiculturale, gelosa della sua tradizione di diritti, accoglienza e asilo. Le due France non si parlano, non hanno nulla da dirsi.
Anche per questo c'è un presidente della Repubblica che non è in grado, come succedeva in passato, di rappresentare tutti. La fiducia condivisa nello Stato, nelle istituzioni, era una delle prerogative per cui si ammirava uno Stato che sapeva essere coeso nelle grandi sfide. E che adesso, a seconda di chi vince, non sa, ad esempio, se starà con la Russia o con l'Ucraina, se avrà una vocazione europeista o una isolazionista.
Tutto questo pesa sui francesi che il 7 luglio non voteranno solo per sé ma la cui scelta influirà sui destini dell'intero Continente di cui la Francia è caposaldo e punto di riferimento.
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