L’Iran è tornato alle urne per eleggere parlamento e assemblea degli esperti. Pochi dubbi su quella che si prospetta come la cronaca di una vittoria annunciata della fazione conservatrice. La fazione riformista che, con diversi volti, accenti, responsabilità istituzionali, si è caratterizzata, dopo la fine dell’unanimismo seguita alla morte di Khomeini, come lo schieramento che più ha rappresentato l’esigenza di allargare la partecipazione popolare, estendere i diritti, anche quelli delle donne, affermare una visione delle relazioni internazionali meno conflittuale con l’occidente e una concezione meno dogmatica del rapporto religione-politica è oggi ai margini.

I riformisti scontano una duplice debolezza: non sono più interlocutore credibile per chi sperava nel loro ruolo di promotori del mutamento, se non di attori della fuoriuscita, di “sistema”: l’esperienza della presidenza Khatami, tra il 1997 e il 2005, è stata, in questo senso, uno spartiacque decisivo; hanno perso peso nei gangli del potere, piegati dal nocciolo duro del regime – clero khomeinista e Pasdaran – deciso a “normalizzare”, con ogni mezzo, uno schieramento ritenuto veicolo di un gorbaciovismo in salsa iraniana destinato, secondo i detrattori, a provocare il collasso di “sistema”.

Per almeno due decenni la Repubblica islamica è stata arena di un’oligarchia di fazioni in aperta competizione per il potere. Il loro comune denominatore era dato dal riconoscersi nella medesima cornice del “sistema” creato da Khomeini dopo l’ascesa al potere. Un quadro che muta negli anni che seguono il golpe nelle urne del 2009, quando i conservatori avallano la discussa e sospetta vittoria del radicale Ahmadinejad sul riformista Moussavi.

Un equilibrio sfociato, negli anni, nella situazione attuale, in cui i conservatori controllano tutti gli organi della Repubblica islamica, dalla guida al presidente, dal parlamento al Consiglio dei guardiani, all’Assemblea degli Esperti.

Una situazione apertamente teorizzata da quanti, come i conservatori, ritengono che la Repubblica islamica non possa funzionare se i suoi diversi organi, a legittimazione politica e religiosa, sono controllati da fazioni troppo diverse nell’orientamento.

Eppure quel “pluralismo” è insito nella stessa architettura istituzionale della Repubblica islamica, fondata su organi a diversa legittimazione, dei quali alcuni, come presidenza della Repubblica e parlamento, di natura elettiva a suffragio universale.

Stesse fonti di un organo a legittimazione religiosa come l’Assemblea degli esperti, formato da 88 membri che hanno requisti di sapere teologico e giuridico, incaricati di scegliere il Rahbar, la guida, il vertice supremo che incarna l’unità ideale tra potere religioso e potere politico, qualora quest’ultima non emerga per via carismatica. Gli esperti possono anche destituire la guida quando questa è inabile ai doveri costituzionali o “scarta” da principi e valori di “sistema”.

Purghe

A determinare chi può candidarsi a un consesso di così grande rilevanza nei momenti decisivi per la successione ai vertici della Repubblica è sempre il Consiglio dei guardiani, sorta di camera superiore, o di “corte costituzionale”, che ha il compito di sorvegliare la coerenza islamica delle norme emanate dal potere legislativo, e quello, divenuto sempre più pregnante e politicamente rilevante con l’aumento della conflittualità tra fazioni, di selezionare le candidature degli aspiranti alle cariche elettive: dal presidente ai parlamentari, sino, appunto, ai membri dell’Assemblea degli esperti. I dodici guardiani sono nominati dalla guida.

Il loro simbiotico legame con i rigidissimi custodi conservatori del “sistema” ha prodotto una selezione sempre più restrittiva nei confronti degli appartenenti alle altre fazioni. Così l’attributo tutto politico di “khodi”, di “sistema”, è ormai prerogativa pressoché esclusiva dei conservatori, con poche eccezioni mirate a evocare, strumentalmente, il carattere “pluralista” del regime.

Un cortocircuito istituzionale che rende pressoché inscalfibile il potere di quanti si ispirano a Khomeini. Per le elezioni del Majlis, il parlamento, il Consiglio dei guardiani ha ammesso poco più di 15mila candidati tra i 48 mila aspiranti a uno dei suoi 290 seggi. E tra quanti hanno superato l’esame di conformità ai “valori e principi” del regime i riformisti sono una quota residuale.

Ben più accurata scrematura – una vera e propria “purga” in salsa iraniana, come indica lo stesso termine khaales-saazi usato per descrivere l’accaduto – è stata operata per le candidature all’Assemblea degli esperti. Khamenei è in età avanzata e soffre di patologie importanti: dal momento che nessun leader carismatico si profila all’orizzonte, è prevedibile che la successione dovrà essere gestita da questo organo, che resta in carica per otto anni.

L’obiettivo della guida, che si vuole garante della continuità politica e religiosa dell’esperimento khomeinista, è stato nella circostanza evitare la presenza tra gli esperti di personalità non allineate capaci, per linea politica e prestigio, di orientare una successione su cui l’attuale guida vuol dire l’ultima parola.

Così è stato escluso l’ex presidente Hassan Rohani, in carica tra il 2013 e il 2021, riformista assai moderato, già membro di quell’assemblea dal 1999. Un disegno, quello di Khamenei, che per alcuni potrebbe assumere persino una dimensione personalistica: a ricoprire la carica verrebbe, in tal caso, chiamato il figlio Mojtaba , attivo politicamente, anziché l’attuale presidente della Repubblica, il conservatore Ebrahim Raisi, che pure vi aspira.

La successione ereditaria, una routinizzazione del carisma per via familiare in un mondo, come quello sciita, che riconosce quel privilegio solo alla linea fondativa dell’imamato duodecimano, non è semplice. Ma in Iran il Dio della religione cede sovente il passo al Dio del politico.

Donna, vita, libertà

Di fronte alla riduzione del “pluralismo” di sistema a dominio di una sola fazione – anche la destra radicale di Ahmadinejad, non più utile agli ormai rafforzati conservatori, che pure l’hanno usata come punta di lancia contro i riformisti tra il 2005 e il 2013, è stata marginalizzata con l’accusa di “avventurismo” – nemmeno l’ex-presidente espressione della “generazione del fronte”, quella dei reduci nella guerra Iran-Iraq, ha tentato di candidarsi.

In questo coercitivo panorama, l’indicatore del reale consenso di sistema resta, se non manipolato nei numeri, il tasso di astensione nelle elezioni. È probabile che larga parte di giovani e donne, in particolare dei centri urbani, dove il controllo sociale è minore, così come gli ex sostenitori dei riformisti, non si rechino alle urne.

Nonostante il Consiglio dei guardiani abbia evitato di far cadere la sua pesante mannaia sul 13 per cento di candidate femminili, ammettendo, ovviamente, quelle che non si riconoscono nelle istanze del movimento “Donna, vita, libertà”.

Il tasso più o meno alto della partecipazione elettorale è in Iran funzione della possibilità di mutamento politico. Dopo la grande repressione seguita alla protesta contro il velo obbligatorio, l’opposizione, obbligata anche dall’acefalia di leadership, si fa più nella vita quotidiana che nei canonici luoghi della politica.

Come mostra la pratica femminile di uscire per strada senza hejab, sfidando una repressione che si serve, più che della discussa e manesca Gasht-e Ershad, la polizia morale, della pervasiva tecnologia di controllo cinese.

L’afflusso alle urne, non a caso biasimata dalla guida, resta, in assenza di alternative credibili, la vera cartina tornasole del grado di legittimazione del sistema. Nel 2020 la partecipazione è stata del 42,5 per cento: sotto quella soglia, l’indicatore di criticità aumenterà esponenzialmente.

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