Le elezioni in Iran sono per molti aspetti una formalità. Le decisioni più importanti, nella Repubblica islamica, non spettano alle cariche elettive: sono concentrate nei circoli clericali e militari, con al vertice la guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. È stato tra i primi a votare e a chiamare la popolazione alle urne: «La parola Repubblica nel nome Repubblica islamica indica che la presenza del popolo è una parte fondamentale di questo sistema».

Ma tra instabilità regionale, forte isolamento dall’Occidente e una società sempre più povera, il voto del 28 giugno – prorogato di quattro ore fino alle 22, ora locale, con il chiaro tentativo di spingere in su l’affluenza – è importante perché dà il senso della direzione che prenderà il regime. In un periodo di crisi senza precedenti dalla rivoluzione del 1979.

Una sfida a due

I dati ufficiali arriveranno solo il 30 giugno, ma molto probabilmente – se nessuno dovesse raggiungere il 50 per cento – il nome del successore di Ebrahim Raisi si conoscerà solo il prossimo cinque luglio, quando si sfideranno al ballottaggio i due candidati più votati. I sondaggi pubblicati dalla tv di Stato alla vigilia dell’apertura delle urne stimavano il “riformista” Pezeshkian al 23,5 per cento, seguito dai due volti “conservatori”, Ghalibaf e Jalili, rispettivamente al 16,9 e al 16,3 per cento.

La candidatura più moderata di Pezeshkian è stata già di per sé una novità, considerato che alla scorsa tornata elettorale erano stati ammessi solo conservatori. Anche se questa timida apertura, secondo molti esperti, serve al regime per portare più persone possibile alle urne. Se poi una sua eventuale vittoria si tradurrà in nuove posizioni è tutto da dimostrare. Sicuramente, non nella postura che si avrà nel Medio Oriente. «Cercheremo di avere relazioni amichevoli con tutti i paesi tranne Israele», ha ribadito ieri Pezeshkian all’uscita del seggio elettorale. Teheran continuerà con la sua politica anti-israeliana e continuerà ad appoggiare i suoi proxy nella regione.

È soprattutto sulle cure per un’economia sempre più in difficoltà che si sono confrontati e divisi i candidati. In particolare, il dibattito è ruotato attorno alle sanzioni occidentali e all’opportunità di tornare al tavolo delle trattative sul nucleare con gli Stati Uniti. Su questo argomento le aperture sono venute solo da Pezeshkian, della stessa area politica dell’ex presidente Hassan Rouhani, sotto il cui mandato è stato firmato l’accordo nel 2015, poi stracciato unilateralmente da Trump nel 2018.

Al suo fianco si è schierato anche l’ex ministro degli Esteri Mohammad Zarif, che ha studiato negli Usa e che da molti è visto come un possibile ponte per il ripristino di un dialogo con l’Occidente. Al contrario, sia Ghalibaf che Jalili rappresentano l’ala più intransigente. E negli ultimi giorni, proprio su questi temi, hanno ricevuto un implicito endorsement dallo stesso Khamenei, che ha criticato l’idea secondo cui «tutte le vie del progresso passino attraverso gli Stati Uniti».

Proteste e affluenza

Per dare l’immagine di una grossa affluenza alle urne – la principale preoccupazione della leadership iraniana – per tutta la giornata le tv statali hanno mandato in onda le file di votanti davanti ai seggi. Al contrario, sui social network sono rimbalzate le immagini di seggi semi vuoti, a testimoniare il flop di queste elezioni. Sempre dalle foto pubblicate online si è vista una presenza massiccia delle forze di sicurezza in giro per le città. I numeri li ha dati direttamente il portavoce del ministero dell’Interno: 190mila davanti ai seggi.

Se nel paese la forma scelta per dissentire è stato il boicottaggio, al di fuori dell’Iran i manifestanti anti-regime si sono dati appuntamento davanti ad ambasciate e consolati. Per oggi 29 giugno il Consiglio nazionale della resistenza dell’Iran ha convocato a Berlino una manifestazione europea per contestare il risultato delle «elezioni farsa».

© Riproduzione riservata