«Signore, mi dispiace, è una femmina... Come se non fosse una cosa bella che ero una bambina? Maman annuisce piano. Forse l’infermiera pensava che baba volesse un maschio. Come lui».

L’infermiera lo ripete perché forse non hanno capito bene: come si fa a essere felici di avere una figlia femmina a Teheran? Ma il papà stringe al petto la sua bambina e le promette che farà di ogni luogo del mondo una casa accogliente per lei. Pegah dovrà essere una bambina felice. Il nome stesso, che significa “aurora”, è una speranza, una promessa. «Baba ha pensato che quella dovesse essere l’ultima volta che sentiva una cosa del genere, che la tua vita sarebbe stata l’inizio di un mondo nuovo per tutti noi».

Così Maryam inizia a raccontare a sua figlia Pegah una storia che ancora non conosceva bene, la sua. Ascoltando i racconti di famiglia, Pegah Moshir Pour inizia un viaggio dentro sé stessa, tra Italia e Iran, alla scoperta delle proprie origini. È nato in questo modo il suo libro d’esordio, La notte sopra Teheran (Garzanti, 2024), in cui la storia personale si intreccia alla rivolta delle “malvelate” iraniane.

Nata a Teheran nel settembre del 1990, Pegah Moshir Pour si trasferisce con la famiglia, a soli nove anni, in Italia. È qui che ha iniziato a conoscere meglio l’Iran, un Paese lasciato troppo presto e dove al momento non può tornare. L’Italia invece ha scoperto Pegah al festival di Sanremo 2023, quando è salita sul palco dell’Ariston per recitare i versi dell’inno della rivoluzione, Baraye. Ma già da anni Pegah si occupava di empowerment femminile, diversità, violenza di genere e discriminazione digitale. Dopo il liceo linguistico, ha scelto di studiare ingegneria edile, «una laurea considerata poco adatta a una donna».

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L’esempio di Mahsa Amini

Proprio sul fronte dell’empowerment femminile nelle discipline Stem ha iniziato a impegnarsi. Nel settembre 2022 è arrivata poi la presa di coscienza. «Quando ho iniziato a vedere quelle immagini terribili e fortissime di Mahsa Amini – morta per una ciocca di capelli fuori dal velo – che arrivavano dall’Iran, mi sono detta “come posso stare zitta e ferma mentre loro combattono in prima linea?”. Quindi ho iniziato a far sentire la mia voce, nonostante sapessi che non sarei più potuta tornare in Iran». Oggi Pegah ha 33 anni, è consulente in Ernst & Young e si è affermata come attivista per i diritti delle donne iraniane in Italia. «La mia è stata una necessità, si diventa attivista perché ci si racconta, e raccontandosi si incontrano altre persone unite da una causa comune».

Da questa esigenza è nato anche il libro. «Volevo raccontare quello che sta accadendo ora in Iran, come siamo arrivati a tutto questo e perché le donne si ribellano dal settembre 2022. Attraverso la mia storia e quella di mia madre volevo poi raccontare cosa vuol dire essere donne in Iran. Ma anche cosa vuol dire essere straniere in Italia». Una storia di riscatto inebriata dal profumo di tè chai, intrisa di paura, coraggio e malinconia, che si legge come una favola contemporanea sulla ricerca d’identità di una giovane donna e dell’attuale Iran.

Il pane barbari con la marmellata di carote, i doore (le feste del venerdì sera) nel salone di casa a Teheran, le spiagge sul mar Caspio, il Bam-e Teheran, il tetto da cui ammirare tutta la capitale. Questo era l’Iran di Pegah. «Della mia infanzia ho ricordi felici, mi piaceva la mia vita lì». Le sembrava normale ballare sulle canzoni di Michael Jackson a casa, mentre a scuola era costretta a cantare l’inno patriottico “Ey Iran”; sentire i genitori fantasticare di altri Paesi e culture mentre a scuola le maestre cominciavano le lezioni con «Marg bar Amrica marg bar Esraeil!» («A morte l’America, a morte Israele!»); finire quasi arrestate per un semplice litigio tra amiche; fare feste clandestine nei sotterranei della capitale.

L’addio al paese

«I miei genitori hanno cercato di farmi capire che l’Iran non era un Paese sicuro, soprattutto per una ragazza». L’annuncio di un immediato trasferimento in Italia sconvolse Pegah al punto da tentare una fuga da casa pur di rimanere a Teheran con sua cugina Setareh. «L’unico personaggio fittizio del romanzo, Setareh, è il mio alter ego, quello che sarei diventata se fossi rimasta in Iran. Mi piaceva l’idea di poter essere una cyberfemminista che combatte il regime dall’interno».

Invece, contro la sua volontà, Pegah è arrivata in Italia, in tempo per iscriversi in quarta elementare a Potenza, «una città fredda», «tutta in salita». «All’inizio in Italia è stato difficile. Avevo da poco imparato a leggere e scrivere da destra verso sinistra, in Italia invece mi sono dovuta abituare a un nuovo sistema. La lingua italiana poi ha una grammatica più complessa del farsi, quindi ho dovuto faticare con generi e articoli che non esistono nell’altra lingua». Neanche l’integrazione con i coetanei è stata facile: «Quanti cammelli hai al tuo Paese?», le chiese un suo compagno di classe. «Poi sono stata aiutata e accolta, ma era comunque complicato inquadrarmi per alcune insegnanti, come quella che dopo l’attentato alle Torri Gemelle mi chiese “Pegah, probabilmente sei la più indicata qui dentro per spiegarci le motivazioni dell’attacco. Sei araba”».

Ha dovuto aspettare dieci anni per avere il passaporto italiano, senza il quale ha dovuto rinunciare a una gita a Londra con la sua classe del liceo. «È necessario introdurre lo ius scholae e lo ius culturae. In Italia sono quasi un milione i ragazzi che frequentano le scuole senza avere la cittadinanza italiana».

Due culture

Lo shock culturale l’ha portata quasi a rinnegare le sue origini, ma oggi Pegah si sente felicemente «iraniana e italiana al tempo stesso, sono l’unione di due culture, due identità, due Paesi. A volte non mi sento né l’una né l’altra, a volte entrambe. Ma sicuramente sono europeista». Cresciuta tra il Libro dei Re e la Divina Commedia, tra i festeggiamenti del Nowruz e la pasta al ragù della domenica, Pegah, figlia della terza cultura, oggi ha capito la scelta dei genitori. «Mi sento molto fortunata. Tra l’altro le condizioni lavorative di mio padre ci hanno permesso di trasferirci in Italia, mentre altri sono costretti ad affrontare quei viaggi della morte».

Per anni però ha provato un senso di colpa per la vita serena di cui gode rispetto alle coetanee iraniane. Complesso del sopravvissuto, lo chiama la sua psicologa. «Per liberarmene avevo bisogno di sapere. Ho chiesto ai miei genitori, separatamente, di raccontarmi tutto, senza alcuna censura. Ho scoperto tantissime storie, per esempio quella di mio padre finito in carcere senza essere accusato di niente. E quella di mia madre che fu bandita da tutte le università iraniane per essere stata sorpresa a partecipare a una festa in piscina. Solo allora ho capito la sua insistenza nel volere che studiassi e trovassi un lavoro. Entrambi i miei genitori però non hanno smesso di battersi per le loro idee».

«È lo stesso coraggio che vedo nelle donne e negli uomini che si ribellano oggi in Iran. È la rabbia, la paura che si trasforma in coraggio. Oggi si manifesta meno in piazza, ma la protesta continua come disobbedienza civile: le donne non portano il velo obbligatorio, gli uomini prestano loro supporto. È in atto una rivoluzione culturale, in cui la musica, la danza e le altre arti si fanno veicolo di nuovi valori e codici. Perciò tanti artisti sono stati censurati e arrestati. Ora siamo preoccupati per il rapper Toomaj Salehi che rischia l’impiccagione, purtroppo non abbiamo quella mobilitazione globale che servirebbe per fermare l’esecuzione. L’ultima notizia è del regista Mohammad Rasoulof, che è dovuto fuggire dall’Iran dove era condannato a cinque anni di carcere e alla fustigazione».

Prima che la notte piombasse sull’Iran, i rivoluzionari del 1979 avevano lottato per un futuro libero dallo scià, così ora si battono per un nuovo giorno libero dal regime di Khāmeneī. «Le rivoluzioni richiedono tempo ma non si torna indietro», conclude Pegah Moshir Pour, consapevole di parlare a nome di chi non può. «All’inizio avevo il terrore che da un momento all’altro potessero arrestarmi, oggi so che nella mia voce risuona quella di Setareh, come di migliaia di iraniane e iraniani a cui è stata tolta la parola».

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