Il 2 giugno il Messico eleggerà per la prima volta una presidenta. La scelta, per i 99 milioni di elettori, è tra la progressista Claudia Sheinbaum, sostenitrice dell’intervento dello stato per ridurre le disuguaglianze, e Xóchitl Gálvez, conservatrice, paladina della meritocrazia.

Chi vincerà succederà ad Andrés Manuel López Obrador (Amlo), che lascerà il palazzo nazionale con un indice di approvazione del 66 per cento e dati lusinghieri all’interno di un bilancio complesso. Oggi il Messico ha la minor disoccupazione di tutti i paesi Ocse, il 2,3 per cento, cinque milioni in meno di poveri rispetto a sei anni fa, e il peso è una delle monete più forti del continente.

Claudia Sheinbaum (1962), del Movimento di rigenerazione nazionale (Morena) dello stesso López Obrador, alleato con sinistra e ambientalisti, è avanti di una ventina di punti nei sondaggi. I genitori, figli dell’immigrazione ebraica, ashkenazita lituano lui, chimico, sefardita bulgara lei, biologa, la crescono nel movimento studentesco del Sessantotto. Nel 1995 consegue un dottorato in ingegneria energetica, e poi, con una borsa di studio della Unam, la più importante università pubblica del paese dove poi lavorerà, si specializza in California in fonti energetiche e cambio climatico.

Si incorpora all’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico alle Nazioni unite. È un prestigioso percorso scientifico, accompagnato dalla militanza politica al fianco di Amlo che, quando nel 2000 diventa sindaco di Città del Messico, la nomina assessora all’Ambiente, e poi la designa ministra dell’Ambiente se lui fosse stato eletto presidente nel 2012. Così non è, e Sheinbaum nel 2018 diventa sindaca della capitale, e per questo riceve un importante riconoscimento dall’Unesco: città resiliente durante la pandemia, mobilità sostenibile, gestione del cruciale problema delle risorse idriche. Quando si dimette, nel giugno 2023, è pronta per la sfida presidenziale, dove è fin dall’inizio in testa nei sondaggi.

Tuttavia, sul suo cammino quello stesso giugno emerge un’avversaria a sorpresa. È Xóchitl Gálvez (1963), candidata dai due grandi partiti neoliberali, il Pan, Partito di azione nazionale, che ha governato il Messico dal 2000 al 2012, e il Pri, Partito rivoluzionario istituzionale al potere per 70 anni e poi tornato dal 2012 al 2018.

Identità indigena

Gálvez è la storia perfetta, fin troppo perfetta, per rappresentare l’idea di meritocrazia delle destre, da contrapporre allo stato sociale che la candidata progressista incarna. Lo spiega bene Jorge Castañeda, che la conobbe quando era ministro degli Esteri di Vicente Fox e cita Marshall McLuhan: «Con Xóchitl il mezzo è il messaggio».

Sostiene di essere una indigena otomí per parte di padre, violento e abusatore, originaria dello Stato Hidalgo, non lontano dalla capitale. Pauperrima nell’infanzia, vendeva tamales (involtini di mais) in strada, e veste delle huipil, le tradizionali bluse ricamate. In molti dubitano; nel paese meticcio per antonomasia lei non sarebbe nata né indigena né povera.

In ogni caso si laurea in ingegneria informatica alla Unam e, dai primi anni Novanta, mette in piedi la propria impresa tecnologica all’avanguardia nel settore di «infrastrutture ed edifici intelligenti». Le va molto bene: self-made woman.

Gálvez, che si racconta trotskista in gioventù, entra in politica con Vicente Fox, il conservatore che nel 2000 rompe il dominio del Pri, che la chiama a capo dell’ufficio per le Questioni indigene. Dal 2018 è senatrice del Pan, ma prende posizioni eterodosse come difendere i diritti Lgbtq+ e quello all’aborto, che in alcune dichiarazioni – ma non sempre – promette di non toccare. Ironica, se non istrionica, resta a lungo una politica di seconda fila finché, il 12 giugno 2023, si scontra con Amlo, che le avrebbe negato il diritto di parola. Finisce sotto i riflettori, e scoppia la cosiddetta “Xóchitl-mania”. L’eco è tale che il 27 giugno si candida alla presidenza della Repubblica e in poche settimane le destre annullano le primarie e la scelgono come candidata. Da quel momento Gálvez, costruita o genuina che sia, si lancia in una campagna durissima, colpendo Amlo per colpire Sheinbaum: denuncia populismo, autoritarismo e corruzione, parla di governo di incompetenti, di narcopresidente e narcocandidata.

Non sono in pochi a crederle, come ha testimoniato la “Marea Rosa”, le circa centomila persone che hanno riempito per lei lo Zócalo di Città del Messico, la grande piazza che riunisce le vestigia precolombiane, la cattedrale cattolica e lo stato moderno. Difficile però che la violenza verbale le basti per vincere, anche perché il terzo incomodo, il giovane Jorge Álvarez Máynez, «candidato contro la vecchia politica», non accetta di ritirarsi, come lei pretende.

Bilancio in chiaroscuro

Il progetto politico di Claudia Sheinbaum è in continuità – con sfumature – con la cosiddetta “Quarta trasformazione” del Messico di Amlo. La prima trasformazione fu l’indipendenza del 1810, la seconda la Riforma di Benito Juárez del 1861, la terza la Rivoluzione del 1910. L’enfasi della “4T” è tutta nella riduzione della disuguaglianza, nei programmi sociali, in particolare rivolti ai giovani, come principale via di pacificare un paese sfiancato dal trentennio neoliberale e dal dilagare del potere del narcotraffico e dalla violenza da questi generata.

Se, come dice il sociologo Enrique Pineda, «il narcotrafficante è l’imprenditore neoliberale in purezza», la scommessa di Andrés Manuel oggi e di Claudia domani è che, se nella nostra epoca storica l’impianto neoliberale dello stato non può essere sovvertito, gli si possono porre delle regole.

Ciò, a trent’anni dalla nascita del mercato unico in Nordamerica (che ogni regola elimina), e posto che, come diceva il premio Nobel Octavio Paz, «il Messico non può traslocare», vuol dire ridurre la subalternità di tutti i governi almeno da Salinas de Gortari in qua. Un sacrilegio per le destre, insufficiente per i movimenti sociali. L’esempio è forse la questione migratoria. Gli Usa esigono il controllo delle frontiere, quella sud col Guatemala e quella nord. Amlo non rifiuta, ma chiede enormi finanziamenti (altro che il muro di Trump a spese del Messico!) e la fine delle sanzioni verso gli alleati Venezuela e Cuba. Il tutto senza schierarsi tra Biden e Trump che, visti da sud, pari sono. Del resto, ormai 30 milioni di messicani vivono relativamente o ben integrati nel vicino del nord, una sorta di invasione pacifica di lavoratori, famiglie, bambini che, piaccia o no, rendono ormai Messico e Stati Uniti imparentati. Forse serpenti, ma pur sempre parenti.

Purtroppo negli Usa stanno anche i milioni di consumatori di droghe che alimentano un flusso di denaro criminale in grado di sovvertire qualunque regime democratico. Amlo, con un certo cinismo, ci spiega l’editorialista de La Jornada Pepe Steinsleger, «sapendo che lo scontro a morte al narcotraffico significasse una guerra civile, ha provato a negoziare non col narco, ma con quell’economia che prospera intorno al narco, un esercito di avvocati, banchieri, assicuratori, notai che fanno riciclaggio ma garantiscono la relativa stabilità e gli indici macroeconomici positivi del sessennio di Amlo». Una realpolitik che ha stabilizzato l’economia ma non ha diminuito né la violenza nel paese né la militarizzazione, lamentata in particolare dai movimenti sociali, un successo e un insuccesso al contempo.

Si diceva infine delle sfumature tra Andrés Manuel e Claudia. Se è scontata l’enfasi di lei nel combattere la violenza di genere e le ragioni strutturali della subalternità femminile, più foriera di cambiamenti è la tematica ambientale. Amlo è sembrato troppo ancorato a un vecchio “sviluppismo” basato su grandi progetti come il Treno Maya nello Yucatan o nel considerare il petrolio come fonte di sovranità per il paese. Sheinbaum vede invece nella transizione energetica e nell’abbandono dei fossili il motore del futuro. E forse questa, se sarà presidenta, è la sfida più difficile.

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