Per settimane nelle strade della capitale Tunisi e del paese non ci sono stati particolari segni di un’imminente elezione, raramente si è assistito a comizi e i dubbi più grandi hanno riguardato chi fossero davvero i candidati.

Tuttavia quello che potrebbe succedere rischia di scuotere le fondamenta dello stato per i prossimi anni. Domenica si tengono le presidenziali che indicheranno il nuovo responsabile di Cartagine. Il favorito assoluto resta l’attuale presidente della Repubblica Kais Saied all’interno di una corsa elettorale fatta più nei palazzi che nelle strade.

Prima con l’eliminazione arbitraria di sette dei dieci candidati da parte dell’Alta istanza indipendente per le elezioni (Isie), dopo con la riammissione degli stessi da parte del tribunale amministrativo di Tunisi e la successiva modifica della legge elettorale in parlamento per impedire a quest’organo di pronunciarsi su possibili ricorsi. Un gesto che è stato molto apprezzato dallo stesso Saied che si presta a tenere le redini del paese per almeno altri cinque anni. Oggi i tunisini troveranno tre opzioni sulla scheda elettorale, una nei fatti.

Una grande incognita infatti ricade su Ayachi Zammel, ex deputato ed esponente di un piccolo partito liberale, condannato a 12 anni di carcere con l’accusa di avere falsificato il dossier di candidatura. Zammel è un volto pubblico poco conosciuto e, nonostante il suo comitato elettorale abbia continuato a sostenere la sua candidatura, il suo destino sembra segnato. Lo stesso si potrebbe dire di Zouhair Maghzaoui, politico panarabista e primo sostenitore del colpo di forza di Kais Saied il 25 luglio 2021 quando l’attuale presidente ha azzerato il parlamento, sciolto il governo e intrapreso un percorso dalle tinte fortemente autoritarie.

L’umore del paese

È da qui che si inizia per cominciare a capire quale sia il tasso di disaffezione della popolazione nei confronti di un’elezione che ha tutti gli ingredienti per essere definita scontata sia all’interno dei confini nazionali che all’esterno. Dopo ci sono le ragioni economiche e sociali e la perdita d’acquisto che da tempo sta toccando una fascia sempre più ampia di tunisini.

Infine arrivano le disillusioni collettive nei confronti di un percorso di transizione democratica che non ha portato ai risultati sperati, a partire da maggiori tutele lavorative e la creazione di uno stato sociale che garantisse diritti reali.

Un percorso di transizione democratica tramontato definitivamente il 25 luglio di più di tre anni fa, seguito da tornate elettorali con tassi di partecipazione molto bassi: il 30,5 per cento per il referendum costituzionale del 2022 con cui Saied ha imposto di fatto un regime ultra presidenziale; poco più dell’11 per cento per le elezioni legislative dello stesso anno. Non ci sono però solo i numeri per descrivere il distacco emotivo dei cittadini nei confronti della sfera politica.

Basta guardare infatti alle ultime elezioni presidenziali, tenutesi nel 2019. All’epoca i candidati furono 26 e la voglia di cambiamento era talmente grande che a vincere fu Kais Saied, volto quasi sconosciuto ma portatore di una rottura pressoché totale con la classe politica precedente.

I caffè gremiti di gente della capitale trasmettevano le dirette dei dibattiti televisivi e avenue Bourguiba, la via principale di Tunisi, ospitava i palchi elettorali dei comizi. Per settimane centinaia di persone hanno occupato le strade per ascoltare i programmi e decidere chi dovesse guidare la Tunisia: «Dopo la rivoluzione abbiamo guadagnato molto a livello democratico, di libertà e di pensiero ma economicamente moriamo di fame. Non abbiamo niente», erano ad esempio le parole di Tamem Mahjoub, un giovane medico tunisino.

A distanza di cinque anni l’economia del paese continua a mostrare segni molto preoccupanti con un tasso di inflazione che nel 2023 è rimasto costante attorno al 10 per cento e una disoccupazione stabile al di sopra del 16 per cento.

A cambiare sono state le condizioni democratiche con la promulgazione del decreto 54 nel settembre del 2022 che criminalizza la diffusione di false informazioni e una dura campagna di arresti che ha riguardato buona parte della società civile. Oggi sono più di 90 le persone che si trovano in prigione per motivi politici o reati di opinione.

La manifestazione

Al netto di un clima estremamente pesante, migliaia di persone sono scese in strada (due volte a settembre e l’ultima il 4 ottobre) per denunciare la deriva autoritaria di Kais Saied, compresi i suoi legami con il governo di Giorgia Meloni, accusandolo di essere un dittatore. Seif Ayadi, direttore esecutivo dell’associazione Damj per i diritti Lgbt era tra loro, nonostante rischi diversi anni di carcere per avere manifestato liberamente contro il referendum costituzionale del 2022: «Prima del 25 luglio c’era qualcosa, un lavoro di dieci anni di scambi tra movimenti, partiti e associazioni. Dopo Saied ha distrutto tutto, anche all’interno della società civile», è la denuncia di Ayadi. Sono parole che ritornano spesso tra chi ha manifestato aperta opposizione all’attuale presidente, anche di fronte al rischio di venire incarcerati.

Come Sihem Bensedrine, ex presidente dell’Istanza per la Verità e la Dignità e oggi in prigione con l’accusa di avere falsificato il rapporto finale dell’organo costituzionale incaricato di indagare i crimini commessi durante l’epoca del dittatore Zine El Abidine Ben Ali. Poco prima della sua incarcerazione lo scorso 2 agosto ha rilasciato a Domani qualche considerazione e oggi le sue preoccupazioni suonano più attuali che mai: «Il vecchio apparato è tornato ancora più in forza e senza limiti. Sotto Ben Ali c’era ancora qualcuno che ogni tanto tracciava la linea e metteva dei freni. Ora non c’è più nessuno».

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