Per l’ex presidente, l’attuale inquilino della Casa Bianca e la candidata dem hanno distrutto il paese, ormai avvelenato dagli immigrati. La campagna raggiunge nuove vette nella radicalizzazione della retorica. I sondaggi in parità
Donald Trump stupisce ancora gli osservatori radicalizzando ulteriormente la sua retorica sull’immigrazione. Durante un comizio a Tempe, in Arizona, il tycoon ha definito gli Stati Uniti, dopo che Kamala Harris «ha creato il caos» al confine con il Messico, «il bidone dell’immondizia» del mondo, una descrizione che ha definito «accurata».
Le sparate estremiste di questo tipo sono la cifra del tycoon sin da prima che entrasse in politica, quando era soltanto un immobiliarista in crisi reso più famoso dalla sua conduzione di un talent show televisivo, ed era il primo diffusore della bufala che Barack Obama fosse nato in Kenya, dicendo di voler vedere il suo certificato di nascita per convincersi del contrario. Come se un presidente afroamericano potesse essere eletto solo in modo illegittimo, con l’inganno. Quando poi aveva annunciato la sua candidatura alle presidenziali, nel luglio 2015, il suo discorso era tutto incentrato sui migranti messicani illegali che erano «stupratori». Oggi quei toni, come abbiamo visto, si sono ulteriormente rafforzati.
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Nelle scorse settimane lo stesso candidato repubblicano aveva accusato i migranti di «avvelenare il sangue» degli americani e che questa «invasione» stava rendendo invivibile le aree suburbane che subivano «saccheggi, massacri e stupri».
Un’escalation di accuse che non solo non teme il politically correct, ma nemmeno il senso del ridicolo: se l’America ormai è un paese governato da «ceffi» e ridotto come un «buco infernale del Terzo Mondo», i migranti che arrivano sono «criminali» che arrivano dopo che paesi come il Venezuela il Salvador «svuotano» le loro prigioni.
Durante il dibattito con Kamala Harris a inizio settembre poi ha citato la bufala che circola su X, la piattaforma social di proprietà del suo alleato Elon Musk, sui migranti haitiani che mangerebbero «cani e gatti» di una cittadina dell’Ohio, Springfield.
Nativismo
Fa sorridere, ma fa anche capire come l’ex presidente non si ponga freni nell’incitamento all’odio xenofobo, specie contro quelle categorie che di sicuro non votano per lui. E allora addio messicani, dato l’aumento costante dell’elettorato latino fra i filotrumpiani, sostituiti dagli haitiani, molto più oscuri e minoritari. Oppure dagli abitanti di El Salvador, anche loro quasi ininfluenti a livello elettorale.
Non deve però stupire questo tipo di retorica a cui i decenni pretrumpiani avevano disabituato, con presidenti repubblicani come Ronald Reagan sempre pronti a elogiare il contributo che i “nuovi americani” davano all’economia del paese, usando una metafora sul sangue «sempre nuovo» che oggi ci sembra diametralmente opposta a quella del suo successore Trump.
Però il nativismo è sempre stata una caratteristica presente nella politica americana, letteralmente sin dalle origini, con il primo presidente George Washington che, in accordo con il Congresso, nel 1790 diramava un provvedimento esplicitamente razzista che impediva alle persone di origine africana di ottenere la naturalizzazione come cittadini americani. E nel 1882 il presidente repubblicano Chester Arthur approvava il Chinese Exclusion Act, passato al Congresso con un’ampia maggioranza bipartisan e senza opposizione.
In anni recenti, esponenti repubblicani come Pat Buchanan o Ron Paul tenevano fermo questo punto di voler limitare l’immigrazione e «mettere in sicurezza» il confine, anche quando a livello di vertice i repubblicani favorivano delle amnistie nei confronti dei clandestini per rimpolpare la forza lavoro specie nel settore agricolo.
Oggi invece questa retorica è stata potenziata alle estreme conseguenze da Donald Trump non già come caratteristica specifica del leader, ma come elemento ineliminabile del moderno conservatorismo statunitense. Nessun repubblicano, oggi, può avere le posizioni di Reagan.
Sondaggi in bilico
Dal lato democratico, invece, la candidata Kamala Harris ha un evento a Houston, in Texas, insieme alla popstar Beyoncé, dopo che il giorno prima la stessa vicepresidente era stata ad Atlanta, in Georgia, sul palco con l’ex inquilino della Casa Bianca Barack Obama e il cantautore Bruce Springsteen.
Mentre i sondaggi restituiscono una sfida totalmente aperta, in gergo un “coin-toss”, un lancio di monetina che potrebbe cadere da un lato o dall’altro: l’ultima rilevazione preelettorale del New York Times in collaborazione con il Siena College restituisce la parità statistica totale tra i due contendenti con il 48 per cento dei consensi a livello nazionale.
E le strategie scelte dai due non potrebbero essere più diverse: da un lato Harris punta a mantenere il più possibile unita la coalizione vincente del 2020, nonostante alcune defezioni, ad esempio tra gli arabo-americani scontenti per il sostegno dato a Israele dall’amministrazione Biden, impensieriscano i vertici del partito e della campagna elettorale, che temono gravi conseguenze soprattutto in Michigan.
Dall’altro Donald Trump punta a una mobilitazione totale della sua base a cui mira ad aggiungere due pezzi di coalizione dem: i maschi afroamericani e parte dei latinos che già nel 2020 lo avevano scelto per la buona gestione dell’economia nel suo primo mandato. Sullo sfondo c’è un duplice timore: da un lato, come rivela un retroscena del magazine Axios, i collaboratori di Harris temono di non aver fatto abbastanza e già si preparano a trovare i capri espiatori di un’eventuale sconfitta.
Dall’altro, qualora le previsioni di disfatta si rivelassero inesatte (come durante le elezioni di metà mandato del 2022), si teme che soprattutto a livello locale ci siano operazioni di disturbo del conteggio dei voti fatte da funzionari fedeli alla narrazione delle «elezioni rubate» che viene propugnata da quattro anni da Donald Trump. Una tensione che forse si dissiperà non il giorno delle elezioni, ma il giorno dell’insediamento del nuovo presidente.
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