Sarà il presidente di casa alla finale dei Mondiali di calcio 2026 e la voce che dichiarerà aperti i Giochi di Los Angeles 2028. Ma sa di non essere amato dalle stelle del Paese. Ha una visione opposta a quella del CIO sulla partecipazione transgender. Il progetto di Biden per una squadra di nativi nel lacrosse è a rischio. I suoi amici sono i sauditi del golf, i boss delle arti marziali miste e i proprietari NFL che negarono un contratto a Colin Kaepernick, simbolo di Black Lives Matter
Non sarà il primo dei suoi pensieri, non oggi, ma arriverà il momento in cui Donald Trump troverà il modo di usare la straordinaria circostanza di essere il presidente degli Usa durante i Mondiali di calcio negli Usa, seduto in tribuna per la finale, 19 luglio 2026, MetLife Stadium, East Rutherford, New Jersey, dove Kamala Harris ha preso quasi mezzo milione di voti più di lui.
E sarà ancora la sua voce a dichiarare aperti i prossimi Giochi olimpici, 14 luglio 2028, al Memorial Coliseum, Los Angeles, California, dove i voti per i democratici sono stati quasi due milioni in più dei suoi. Il caso sa sempre come prenderci in giro. Così darà a Trump due palcoscenici globali in due luoghi dove gli anti sopravanzano il suo fan club, dove il consenso non è lo stesso che nell’America interna, quella grossa macchia rossa che sulla cartina degli Stati Uniti esclude solo le coste, le aree dei grandi giornali che raccontano al mondo quel che vedono e soprattutto quel che non vedono.
I nemici
Lo sport non sarà il primo dei suoi pensieri, non oggi, ma è un altro campo nel quale Trump ha qualche conto da regolare. «LeBron James fa schifo», così cantavano quattro anni fa i suoi ultrà radunati alla vigilia del voto. Era il più mediatico fra i nemici, era la stella della pallacanestro che aveva superato la tentazione di disertare la bolla di Orlando in cui si giocavano le finali NBA in pandemia, proprio per farsi sentire da lì contro il presidente, ancora in corsa per la rielezione. L’eco sarebbe stata più vasta. Avevano appena ammazzato George Floyd.
Anche stavolta LeBron si è esposto, «andate a votare per Kamala Harris», e Barack Obama si è detto fiero di lui. C’è una lista lunga così di sportivi che che si sono sollevati contro Trump durante il primo quadriennio. Da capitana della Nazionale di calcio campione del mondo, Megan Rapinoe disse che lei e le sue compagne non ci sarebbero mai andate a quella fottuta Casa Bianca, non sarebbero mai andate a stringere la mano al presidente, figuriamoci, la loro è la squadra dell’empowerment femminile, delle lotte per i diritti, per il contrasto alla diseguaglianza di salario.
Trump giocò d’anticipo, non le invitò, e su questa soglia di vengo-non vengo, ti invito-non ti invito, per quattro anni si è tenuto in bilico il rapporto fra la Casa Bianca e i campioni o le campionesse del paese. Delle prime 20 squadre che vinsero un titolo durante il suo primo mandato, solo dieci andarono a far la foto con lui. Anche chi c’era, mostrava imbarazzo. La metà dei New England Patriots, campioni del Super Bowl, si inventarono una scusa, un impegno per essere altrove, compreso Tom Brady – che un democratico non è. Si tirarono indietro i North Carolina Tar Heels, campioni di basket al college nel 2017.
Le Minnesota Lynx, campionesse WNBA 2017, andarono invece a Washington solo per distribuire scarpe ai bambini poveri. Dileguarono i Golden State Warriors di Steph Curry: lo avevano addirittura dichiarato prima dei play-off. Anzi, fecero di più. Quando capitarono in trasferta per la prima volta a Washington l’anno dopo, andarono a salutare l’ex presidente Obama.
È la squadra allenata da Steve Kerr, il coach che alla scorsa convention democratica è salito sul palco e ha rifatto il gesto di Steph Curry dopo una tripla decisiva, quando si mette le mani sotto la faccia e mima la buonanotte agli avversari. Metteremo Trump a dormire, disse allora Kerr alla convention. Trump è rimasto sveglio, e Trump non è uno che dimentica.
Trump e lo spirito olimpico
Prima o poi nell’agenda del presidente troverà spazio un confronto con il Comitato olimpico internazionale e con il Comitato organizzatore di Los Angeles 2028. L’America che ha votato per Trump è quella degli stati repubblicani in cui viene negata la pratica sportiva in campo femminile alle persone che hanno affrontato un percorso di transizione di genere. Il bando è introdotto fin dalle scuole.
Il CIO ha posizioni differenti. Così come sarà da verificare cosa rimane dell’idea di un torneo olimpico di lacrosse con la partecipazione di una squadra di nativi, considerati gli inventori del gioco. Era un’idea di Joe Biden e LA2028 l’aveva accolta molto volentieri, trovandola parecchio in linea con l’intenzione di far partire dalla California del vecchio Free Speech Movement il messaggio che l’Olimpiade è il posto perfetto del dialogo fra le culture e le differenze.
Lo sport che sta con Trump è per buona parte quello dell’ala tradizionalista della NFL, la lega del football americano, dove per decenni i giocatori neri sono stati ritenuti inadatti a fare i quarterback, il ruolo del regista, lo stratega della squadra: voi correte, i bianchi pensano.
È l’ambiente che non ha mai più offerto un contratto a Colin Kaepernick dall’estate del 2016, quando si era messo in ginocchio durante l’inno per protestare contro le ingiustizie e le oppressioni subite dalla sua comunità. La posizione di Trump dalla Casa Bianca fu netta. Chiese di licenziare lui e tutti quelli in ginocchio come lui. La NFL non si mise di traverso.
I combattimenti e il tennis
Lo sport che sta con Trump è quello di Dana White, presidente della Ultimate Fighting Championship, la più in vista fra le istituzioni delle arti marziali miste. Trump da imprenditore la salvò dal fallimento. È suo amico pure Vince McMahon, il boss del wrestling. Negli anni '80 il tycoon aggiunse al suo curriculum il ruolo di promoter dei match di boxe, lavorando accanto a Don King per i combattimenti di Mike Tyson nei suoi hotel di Atlantic City.
Una ventina d’anni fa aveva invece posato gli occhi sulla carriera di una quattordicenne tennista assai promettente, si chiamava Monique Viele, e il suo coach Rick Macci sapeva che in quel periodo tutte le star dello sport si univano alla potentissima IMG per la cura dell’immagine.
«La IMG ti apre le porte - disse - ma le porte appartengono a Trump». Raccolsero due milioni di dollari in sponsorizzazioni, ma l’intenzione di farle avere un invito per gli US Open naufragò. Viele ha lasciato il tennis prima di compiere 18 anni. Ha lavorato nel marketing per aziende di bevande, alcol, gomme da masticare, telefoni, abbigliamento da tennis. Ha provato di tutto prima di lasciare l’ambiente per una storia di molestie subite dal suo ultimo capo. Ha scritto un libro di memorie in cui racconta il passaggio del ciclone Trump nella sua vita da adolescente.
Anche la passione di Trump per il tennis è evaporata, dopo i ringraziamenti che gli rivolse Monica Seles con la Coppa degli US Open 1991 tra le mani. Disse che era stato tra i pochi a credere in lei e si prese i fischi del pubblico di New York. Trump avrebbe poi cercato di organizzare in uno dei suoi casinò di Atlantic City, il Trump Taj Mahal, la battaglia dei sessi quarant'anni dopo quella originale, Billie Jean King contro Bobby Riggs. Ne voleva una tra John McEnroe e Serena Williams, casomai Venus, con un assegno da un milione di dollari in palio.
Il golf
Il progetto fallì e l’uomo che voleva diventare manager nel tennis si è buttato sul golf. Ha costruito campi in diverse zone del paese, quelli che hanno aperto le porte e offerto ospitalità alla LIV, la lega separatista dal PGA Tour finanziata dal Public Investment Fund dell'Arabia Saudita.
Secondo il New York Times, l’avvento di Trump alla Casa Bianca farà presto crescere la sfera d’influenza di un management già intenzionato nei mesi scorsi a condurre «un processo di riunificazione del mondo del golf professionistico maschile» sotto una nuova etichetta. In sostanza: un’annessione. Spetta al Dipartimento di Giustizia pronunciare l’ultima parola. È una creatura del ramo esecutivo, agisce con una notevole discrezionalità e secondo Jodi Balsam, docente alla Brooklyn Law School, esperta di antitrust nello sport, «quando entra in carica una nuova amministrazione detta le sue priorità».
Nemmeno il golf sarà il primo dei pensieri del vecchio-nuovo presidente. Come i Mondiali di calcio, il football americano, gli inviti delle stelle alla Casa Bianca, i nativi nel lacrosse olimpico, la pratica transgender nello sport femminile. Ma ogni cosa prima o poi dovrà trovare il suo posto, ogni costa dovrà aggiungere un pezzetto di immaginario vecchio e nuovo all’America great again di Trump.
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