A Entebbe, in Uganda, sulla sponda settentrionale del lago Vittoria, è iniziato il secondo tempo di Emergency, quello da affrontare orfani del fondatore Gino Strada, guida carismatica ed emotiva della Ong italiana, scomparso la scorsa estate.

L'occasione era la celebrazione del primo anno di attività del Centro di chirurgia pediatrica di Emergency in Uganda, l'ultimo grande progetto voluto da Gino Strada prima della sua morte. A causa del Covid, non è mai riuscito a visitarlo o a vederlo finito, ma era stato lui a chiedere all'architetto Renzo Piano di regalargli il progetto di un ospedale «scandalosamente bello», tracciando così anche la via per il futuro di Emergency: andare oltre l'emergenza, per costruire progetti sanitari a lungo termine in Africa, una rete di ospedali di qualità occidentale, specializzati in singole competenze, gratuiti, in grado di operare su base regionale, in collaborazione con i governi locali.

L'ospedale è co-finanziato da fondi pubblici ugandesi per il 20 per cento dei costi di costruzione (totale 22,7 milioni di euro) e operativi (5,7 milioni di euro all'anno). «Le cure di guerra, in Afghanistan e altrove, rimarranno nel nostro Dna, ma in questi anni ci siamo resi conto che lo sviluppo medico deve andare oltre i bisogni primari», spiega la presidente Rossella Miccio. La pace rimarrà il faro ideologico di Emergency: «Questi ospedali sono anche strumenti di dialogo, spingono paesi che hanno relazioni diplomatiche difficili o inesistenti a parlarsi tra loro».

La linea degli ultimi anni

Questa direzione era stata inaugurata nel 2007 a Khartoum, in Sudan, con il Centro di cardiochirurgia Salam, che in questi anni ha curato migliaia di pazienti da 28 paesi diversi. Ci sono voluti quattordici anni per aprire qui in Uganda il secondo capitolo, quello che ha trasformato un miracolo isolato come fare chirurgia toracica d'eccellenza in Sudan in un modello scalabile e replicabile.

Il secondo ospedale africano di Emergency è pieno di luce naturale, pulito fino all'ossessione, circondato da giardini e uccelli, con vista sul lago: è una struttura che funzionerebbe anche come albergo di lusso per birdwatcher. Camminare al suo interno dice molto su come potrebbe essere l'organizzazione tra dieci o quindici anni.

«Non ci dispiacerebbe un ruolo di consulenza per i governi africani, il mandato che ci siamo dati è rafforzarne i sistemi sanitari, ma non possiamo farlo da soli, perché siamo troppo piccoli», conclude Miccio, «per affermare questa visione serve una rete molto più ampia, fatta di governi, istituzioni, università». Quella rete esiste già ed è un'altra eredità di Strada, si chiama Anme - African Network of Medical Excellence, il coordinamento sanitario di dodici paesi africani più Emergency. L'Anme era stata messa da parte, i delegati non si incontravano da dodici anni, lo hanno fatto di nuovo venerdì a Entebbe: l'obiettivo è strutturare i prossimi passi di questa cooperazione transnazionale in formato di ospedali specialistici.

Il tipo di interventi

In questo primo anno di attività a Entebbe, sui tavoli operatori sono passati già più di mille tra bambini e ragazzi, dal primo mese di vita fino ai diciotto anni. Quello aperto da Emergency è un centro di chirurgia elettiva, quella non di urgenza ma programmabile, per risolvere malformazioni congenite, spesso all'apparato genitale o digerente.

Sono patologie che in Europa vengono risolte nel primo mese di vita e che qui si trascinano per tutta l'infanzia o la vita, con il carico di stigma e isolamento sociale che portano con sé. «La differenza con altri progetti di Emergency è che qui non operiamo per salvare la vita, ma per migliorarne la qualità», sintetizza così la missione di Entebbe Roberto Picchi, capo infermiere dell'ospedale.

Non più solo rimettere insieme corpi straziati da mine o bombe ma permettere alla chirurgia più avanzata di superare la barriera socio-geografica del Sahara. «Le malformazioni che operiamo qui sono figlie della povertà, di un contesto di malnutrizione acuta della madre: in molte zone rurali arrivano al parto senza aver mai fatto un'ecografia e quando nasce un figlio con una disabilità profonda non ci sono chirurghi pediatrici nel raggio di centinaia di chilometri. Il massimo a cui possono sperare i bambini è essere stabilizzati alla nascita, poi lì lasciano così, con la prospettiva di non potersi nutrire o evacuare in modo normale per tutta la vita». Il racconto è di John Yiga, chirurgo ugandese che ha lavorato con altre organizzazioni europee in Africa prima di essere assunto a Emergency: «C'è una differenza enorme tra portare medici in situazioni di emergenza e costruire ospedali, che sono un'eredità che dura nel tempo».  

Il contesto

L'Uganda è un paese peculiare, si trova a metà delle classifiche continentali sul reddito pro-capite e negli indici di sviluppo umano. Questa è la classe media africana che avanza, prima del Covid il paese cresceva del 6,4 per cento all'anno, ma è anche un paese che deve scontare ritardi cronici nei servizi base, come la sanità, che sulla carta è pubblica e universale, nella realtà è inaccessibile per maggior parte della popolazione.

La pediatria è una disciplina decisiva per il futuro di un paese come l'Uganda: il quinto più giovane al mondo, dove un abitante su due ha meno di sedici anni. Sono 22 milioni di minorenni serviti da una manciata di chirurghi specializzati, tutti residenti nella capitale.

I medici vanno a lavorare all'estero appena possono, le risorse umane scappano dai paesi africani perché non c'è il contesto che permette a un sistema sanitario di funzionare: forniture, strutture, perfino l'energia, visto che la corrente elettrica manca in media fino a 60 ore al mese. «Al Mulago, l'ospedale principale del paese, manca tutto, dalle cannule agli strumenti chirurgici», aggiunge Yiga, che da medico locale conosce bene le falle del sistema.

Chi ha capacità comunicative e digitali si affida alle campagne di crowdfunding delle spese mediche, sempre più usate anche qui, ma la condizione più frequente nelle zone rurali e nelle periferie urbane è non avere alcun accesso a cure di secondo livello. Per i bambini disabili è già un successo essere vivi: il tasso di mortalità infantile è di 43 morti su 1.000 nati, il 30 per cento per mancanza di cure chirurgiche adeguate.

La storia di Clever

Quando è arrivato qui, Clever aveva undici anni e non aveva mai messo piede in un scuola, perché la sua malformazione all'intestino era stata curata con una stomia, una sacca esterna per raccogliere le feci, che nel suo caso sembrava una medicazione di guerra: «È una procedura standard, ma gli era stata fatta malissimo all'ospedale di Kampala, chi è nelle sue condizioni è destinato a non poter mai avere relazioni sociali, fare sesso, sposarsi, perché è circondato dalla vergogna e dal cattivo odore», racconta l'infermiera di Emergency che ha accolto lui e suo padre a novembre.

Arrivavano dopo ore di viaggio dalle zone rurali al confini col Kenya. Durante quest'anno la voce sull'esistenza dell'ospedale di Emergency si è sparsa grazie al passaparola di social media, associazioni, orfanotrofi.

L'intestino del ragazzo era messo troppo male per essere ricostruito, ma gli è stata applicata una protesi esterna meno artigianale di quella con cui aveva vissuto per tutta la vita, facile da pulire e da gestire, e così ha potuto per la prima volta andare a scuola, e lo sta facendo a Entebbe: i viaggi per le visite di controllo sarebbero stati troppo lunghi da fare, il padre di Clever ha chiesto e ottenuto di essere assunto nello staff dall'ospedale per le pulizie.

«Questi due ospedali sono una goccia, ma sono anche un agente di cambiamento, un modo per scardinare l'idea del doppio standard globale nelle cure sanitarie, con intere aree del mondo che possono avere accesso solo al minimo» conclude Miccio. «La cosa più importante che abbiamo dimostrato è che si può fare questo tipo di sanità in Africa, mettendo insieme una scatola di buone pratiche da imitare».

Le più importanti sono sostenibilità e formazione. L'ospedale è destinato al paese, l'obiettivo a lungo termine di Emergency è lasciarlo da gestire ai locali, superando anche la postura dei salvatori bianchi in Africa di molte organizzazioni europee o americane.

Per riuscirci la struttura deve essere sostenibile, e in quest'ottica sono fondamentali i pannelli fotovoltaici sul tetto, l'impianto di recupero dell'acqua e i muri realizzati con una tecnica, suggerita da Piano, che consiste nel recuperare la terra dello scavo per costruirli, spessi e freschi, con quel colore di terra rossa che è l'identità estetica di questo progetto.

E poi la formazione di personale medico locale: 140 su 176 sono ugandesi. È un modo per convincere i talenti che c'è una terza via tra annegare qui nell'inefficienza e la corruzione o emigrare per lavorare con altri standard. 

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