- La guerra ucraina ormai interseca o produce altre crisi internazionali, e vi si intreccia al punto da formare una crisi globale il cui esito probabilmente deciderà i nuovi assetti del pianeta.
- Non saranno affatto secondari il coraggio e la saggezza che dimostreranno gli occidentali, e in particolare gli europei, nel favorire gli esiti positivi, o perlomeno nell’attenuare gli esiti pessimi.
- Così l’esito al momento considerato più probabile da istituti di studi strategici è uno stallo prolungato e intermittente, senza mai una definitiva conclusione.
La guerra ucraina ormai interseca o produce altre crisi internazionali, e vi si intreccia al punto da formare una crisi globale il cui esito probabilmente deciderà i nuovi assetti del pianeta.
Alcune di queste crisi sono già ora in primo piano e questo giornale ne ha discusso con profondità: crisi della globalizzazione, crisi alimentare, crisi energetica, crisi climatica. Altre, connesse con queste, sono ancora sullo sfondo. Quel che però è evidente è che sarà decisivo il modo in cui la guerra finirà, o non finirà.
Dal secolo scorso “crisi” è parola che intriga i filosofi per il suo significato aperto, problematico: in questo caso indica tanto lo sconquasso disastroso di un vecchio ordine quanto la possibilità di costruirne uno migliore. Tra la catastrofe e un qualche progresso le possibilità intermedie sono molte.
Non saranno affatto secondari il coraggio e la saggezza che dimostreranno gli occidentali, e in particolare gli europei, nel favorire gli esiti positivi, o perlomeno nell’attenuare gli esiti pessimi.
Ma gli ottimisti non dovrebbero mai dimenticare un fatto che non depone a favore della possibilità di governare il processo: la guerra è il territorio privilegiato dell’eterogenesi dei fini. Come gli occidentali dovrebbero ormai aver appreso da conflitti e post conflitti di cui sono stati propulsori negli ultimi vent’anni.
Tre esiti
Se stiamo alla polemologia ogni guerra, inclusa questa, può avere tre esiti, e soltanto quelli: la capitolazione di uno dei due belligeranti; un compromesso che conduce a una pace definitiva; uno stallo che si trascina lungo una sequenza tumultuosa e inconcludente di cessate-il-fuoco e riprese dei combattimenti.
Per quanto una vittoria russa sia sempre più improbabile, l’esercito di Vladimir Putin sarebbe ancora in grado di accerchiare e sconfiggere le truppe ucraine dislocate nell’est, forse due terzi del totale, e di ottenere a quel punto la resa di Kiev (il precedente: quando le armate del Terzo Reich sbaragliarono l’esercito francese lontano da Parigi, la capitale si arrese senza combattere).
Ma anche in quel caso agli ucraini resterebbero territorio, uomini e armi a sufficienza per organizzare la guerra di liberazione, nel calcolo, storicamente esatto, che tra un esercito di sudditi e un esercito di uomini liberi in lotta contro l’invasore alla lunga è il secondo a prevalere.
Una vittoria degli ucraini chiuderebbe la guerra? Putin non accetterebbe di essere umiliato e presto tenterebbe la rivincita, forse con armi “non convenzionali”. Se però fosse non solo sconfitto ma anche detronizzato e sostituito da una figura più pragmatica e non nazionalista, allora sarebbe possibile addivenire a una pace giusta e definitiva.
E cioè una pace che restituisca all’Ucraina tutti i territori occupati, protegga gli ucraini russofoni da possibili vendette, offra a Mosca le dovute garanzie di sicurezza e installi la Russia nel consesso delle democrazie. Sarebbe il risultato ideale. Ma in questo percorso sono troppe le ipotetiche perché l’eterogenesi dei fini non ne scompigli la linearità e ne devii gli esiti finali.
Effetti nefasti
Così l’esito al momento considerato più probabile da istituti di studi strategici è uno stallo prolungato e intermittente, senza mai una definitiva conclusione. Un paese devastato dai missili contro un paese devastato dalle sanzioni. Con effetti nefasti proiettati nel mondo, come sarebbe subito chiaro.
Mosca sarebbe assai poco disponibile sia a firmare nuovi accordi globali (per esempio sul clima: la Russia produce un quarto dei gas serra) sia a mantenere in vita gli accordi preesistenti (quali il New Start per la diminuzione delle armi di distruzione di massa). Putin potrebbe allargare il conflitto esportandolo in Europa (per cominciare in Bosnia, così da incendiare di nuovo i Balcani). La crisi alimentare si aggraverebbe, e con quella l’instabilità dell’Africa e del medio oriente.
I quattro milioni accolti con generosità dall’Europa conoscerebbero sentimenti meno amichevoli presso i popoli di cui sono ospiti. Profittando dell’inconsistenza della cosiddetta comunità internazionale, l’islamismo jihadi annidato nell’anarchia afghana lavorerebbe indisturbato ai suoi progetti, in proprio o con l’aiuto di sponsor internazionali. E tutto questo sarebbe solo l’inizio.
Un vasto segmento della destra angloamericana ha deciso di ignorare la possibilità di questo disastro. Sono illuminanti alcuni degli anchormen della Fox. Ripetono che Biden è un presidente debole e lo invitano a far propria la strategia che Reagan sintetizzava così: we win, you lose, noi vinciamo, voi perdete. Dove quel “noi” rivela la volontà di combattere per procura fino all’ultimo ucraino.
Il richiamo a Reagan è opportuno, il presidente americano attuò una politica altrettanto spensierata: per sconfiggere in Afghanistan l’Urss quando ormai tutti gli indici sovietici erano in declino (lo spiega Daniel Patrick Moynihan in Pandemonium) costruì un esercito di jihadi come Osama bin Laden, con i risultati che conosciamo. Uccidere un nemico agonizzante allevando un nemico ben più pericoloso e vitale: ecco un limpido esempio di eterogenesi dei fini, o per dirla tutta, di cialtroneria strategica.
Ma quel che per l’Europa sarebbe una catastrofe risulterebbe un buon affare per la destra trumpiana e per il segmento del complesso militare-industriale suo alleato.
Il we win, you lose è una di quelle fesserie che galvanizzano gli elettorati, porta voti, finanziatori, e commesse da capogiro per i finanziatori (anche la migliore stampa statunitense ora ospita appelli all’amministrazione perché raddoppi la spesa in armamenti, per cominciare costruendo 200 navi da guerra in modo da ottenere una schiacciante superiorità sulla flotta cinese).
Non meno rilevante sarebbe il risultato strategico che gli Stati Uniti coglierebbero in Europa: perdurando la guerra, e con la guerra la minaccia russa sull’Europa orientale, quella parte della Ue a rischio resterebbe sotto protezione Nato, di fatto americana, e guarderebbe a Washington più che a Bruxelles.
Col tempo, e nella più ottimistica delle ipotesi, avremmo un mondo spartito tra una nuova Pax americana e una inedita Pax sinensis, e nel mezzo un movimento di non allineati. Due blocchi, ciascuno con proprie norme politiche, economiche e sociali, e con tecnologia propria. E ciascuno impegnato a lanciare guerre per procura nel campo dell’avversario, che terrebbe sotto il tiro di centinaia di missili con testata atomica.
L’obiettivo più funzionale
La prospettiva della nuova, agognata Guerra fredda non sembra affatto negli auspici di pensatoi americani come Foreign Affairs o National Interest. E nei fatti l’amministrazione Biden sembra molto più prudente di quanto indichino le esternazioni di Biden su Putin, una concessione alla platea polacca e a quella parte dell’elettorato americano in cui il we win, you lose risuona.
Nei fatti finora Washington è stata prudente, ha spento sul nascere le richieste di no-fly zone o di Mig avanzate da Zelensky, non ha inviato agli ucraini missili che potessero colpire il suolo russo. E questo, l’invio di armi, quali e quante, è il metro col quale occorre misurare le reali intenzioni dei governi occidentali. Finora missili anti carro e anti aereo hanno permesso agli ucraini di resistere e di non essere massacrati dal meglio armato esercito russo. Altre armi in arrivo, sia pure di terza mano, li aiuteranno a scongiurare definitivamente il rischio di una sconfitta.
Altre ancora forse permetteranno di liberare città e territori occupati. Ma se questo sarà il trend, arriverà il momento in cui europei e americani, insieme, dovranno decidere qual è l’esito militare più funzionale al negoziato di pace; e se il tipo e la quantità di armi che gli ucraini ricevono sia coerente con quel risultato. Beninteso, è nel pieno diritto di Zelensky reclamare, perfino con toni urticanti, missili, aerei e quant’altro occorra agli ucraini per riprendersi la patria per intero.
Forse è perfino il suo dovere, checché ne pensi la moltitudine di orecchianti che in Italia lo bolla come pazzo, irresponsabile, invasato. Ma è dovere degli occidentali immaginare un punto d’equilibrio tra la difesa degli aggrediti e la punizione degli aggressori, calibrare di conseguenza armamenti e sanzioni, venire a patti con Mosca.
Senza mai dimenticare quanto scriveva uno dei più geniali indagatori dell’eterogenesi dei fini, Niccolò Machiavelli: «Nel volere condurre la cosa alla sua perfezione (accade) che sempre propinquo al bene sia qualche male, il quale con quel bene sì facilmente nasca che pare impossibile potere mancare dell’uno, volendo l’altro». Nell’apparente perfezione del we win, you lose potrebbe nascondersi molto più male che bene.
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