Almeno nove persone sono morte e quasi tremila membri del gruppo libanese sono rimasti feriti. Per i miliziani non c’è alcun dubbio: dietro le detonazioni improvvise c’è la mano di Israele
Almeno nove persone sono morte e quasi tremila membri del gruppo libanese di Hezbollah sono rimasti feriti, anche gravemente, in seguito all’esplosione coordinata dei cercapersone che i miliziani usano per comunicare. L’attacco è stato definito da fonti del gruppo filoiraniano come «la più grande violazione» della sicurezza di Hezbollah da quando sono iniziate le ostilità con Israele quasi un anno fa. Le esplosioni sono avvenute soprattutto a Beirut, dove ambulanze hanno iniziato a sfrecciare nei sobborghi a sud della capitale causando il panico tra i residenti. In molti casi sono state registrate esplosioni dei dispositivi anche al sud del Paese e in alcune zone della Siria.
Stando ad alcune testimonianze, vari apparecchi sono scoppiati in faccia ai miliziani anche trenta minuti dopo le prime detonazioni avvenute a metà pomeriggio.
Tra i feriti ci sarebbe anche l’ambasciatore iraniano Mojtaba Amani, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa iraniana Mehr. Il ministero della Sanità libanese ha esortato la popolazione a stare lontana dai dispositivi di comunicazione wireless dopo il ferimento dei membri di Hezbollah, non solo miliziani ma anche alcuni medici secondo alcune fonti, e a recarsi presso gli ospedali del Paese a donare il sangue. Nel tardo pomeriggio, Hezbollah ha diramato un comunicato accusando apertamente Israele di aver provocato morti e feriti, anche tra i civili, e promettendo ritorsioni. Stando a prime ricostruzioni circolate ieri, i dispositivi, peraltro adottati recentemente dal gruppo, sarebbero stati hackerati e manomessi, causando il surriscaldamento delle batterie al litio fino alla loro esplosione. Interpellate da più parti, le autorità militari israeliane non hanno rilasciato nessun commento sull’attacco. Una fonte dell’entourage del premier ha confermato al Times of Israel che ci sarebbe Gerusalemme dietro l’attacco, per poi essere smentito dall’ufficio del primo ministro.
L’attacco su suolo libanese è avvenuto poche ore dopo che i servizi segreti interni Shin Bet hanno fatto sapere di aver sventato l’omicidio di un ex agente della sicurezza israeliano, di cui non è stata comunicata l’identità, che Hezbollah voleva uccidere con un attentato dinamitardo nei prossimi giorni.
Non è chiaro come questo attacco possa influenzare l’evoluzione delle ostilità tra i due Paesi, ma il timore che possa provocare un’escalation sta crescendo in queste ore. È infatti avvenuto in un momento in cui la temuta guerra aperta tra Israele e Libano sembrava avvicinarsi sempre di più. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha tenuto una serie di colloqui con i vertici degli apparati di sicurezza e delle forze armate martedì sulla questione del fronte nord.
Oltre al ministro della Difesa Yoav Gallant e ai vertici dell’esercito israeliano (Idf), le consultazioni riguardanti Hezbollah hanno coinvolto il capo del Mossad, i servizi segreti esterni, David Barnea.
Tali colloqui sono avvenuti dopo che il gabinetto di sicurezza ha deciso di inserire ufficialmente tra gli obiettivi della guerra anche quello del ritorno alle proprie case dei circa 80.000 sfollati israeliani, costretti ad allontanarsi dalle comunità al nord del Paese, a causa dei continui lanci di razzi, missili e droni da parte di Hezbollah verso quelle zone. Le rappresaglie israeliane hanno a loro volta costretto migliaia di civili ad abbandonare il sud del Libano.
Parallelamente, sia Gallant che Netanyahu hanno fatto sapere che la possibilità di un accordo con Hezbollah per porre fine alle tensioni a nord del Paese sta svanendo. Israele ha sempre sostenuto di preferire una soluzione diplomatica alla crisi con Hezbollah, che comprendesse l’allontanamento dei miliziani sciiti dalla zona di confine, ma il gruppo libanese ha più volte ribadito di non voler porre fine alle ostilità fino a quando la guerra a Gaza continuerà.
Sinora, però, la mediazione di Qatar, Stati Uniti ed Egitto non ha portato Hamas e Israele ad accettare proposte di cessate il fuoco a Gaza. Il gruppo libanese appoggiato dall’Iran ha aperto il secondo fronte della guerra con Israele il giorno dopo dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, che ha scatenato la guerra di Gaza.
I combattimenti si sono intensificati dal 7 ottobre, senza però sfociare sinora in una guerra aperta che comprendesse un’offensiva di terra o bombardamenti oltre la zona di confine dei due Paesi.
Nel frattempo, le speculazioni sull’intenzione di Netanyahu di licenziare il ministro Gallant sono continuate, anche se vista l’escalation col Libano la sua sostituzione con Gideon Sa’ar, il deputato del partito di destra Nuova Speranza, potrebbe essere posticipate rispetto alle intenzioni iniziali.
Sa’ar, ex ministro della giustizia, ha più volte criticato la condotta di guerra del governo sostenendo un’azione più decisa, al contrario di Gallant, che ha sostenuto la necessità di raggiungere una tregua al più presto per salvare gli ostaggi ancora prigionieri a Gaza. Avere Sa’ar al governo e con lui l’appoggio di quattro voti parlamentari in più, renderebbe Netanyahu un po’ meno dipendente dalle varie fazioni di estrema destra o ultraortodosse che lo hanno fortemente condizionato sinora. Ma significherebbe avere un ministro della Difesa che ha più volte sostenuto la necessità di un approccio più aggressivo, incluso nei confronti dell’Iran. Gallant è uno dei ministri più rispettati dall’opinione pubblica israeliana, anche perché ha difeso l’idea di una tregua con Hamas per salvare gli ostaggi, invece di continuare con i bombardamenti per convincerli ad una resa.
Martedì, il ministro è stato difeso anche dal mondo imprenditoriale israeliano, che ha chiesto attraverso l’Israel Business Forum, di mantenere Gallant dov’è, dicendo a Netanyahu di «smetterla di fare confusione con operazioni di politica spicciola». «Il licenziamento del ministro indebolisce Israele agli occhi dei suoi nemici e renderà ancora più profonde le divisioni del popolo di Israele», ha dichiarato il Forum, che raduna circa 200 capi delle più grandi aziende del Paese.
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