L’Africa non è un continente immobile ma cambia continuamente. La trasformazione della società africana avviene a tappe forzate. La globalizzazione ha cambiato la cultura delle giovani generazioni africane urbanizzate, oggi più individualiste e meno comunitarie dei loro padri.

La mentalità dell’africano adulto o anziano è ancora in parte legata ai vecchi miti e alle ideologie anni Sessanta, come il panafricanismo. L’«ubuntu» – cioè «io sono perché noi siamo» – è stata la matrice di tanti sogni africani dalla fine delle indipendenze. Ad esso si sono poi aggiunti tanti progetti di African Renaissance, di rinascita africana, legati all’orgoglio collettivo del continente.

Si sono immaginate “african solutions for african problems”, che hanno segnato l’epoca del sorgere dell’Unione Africana, un’istituzione comune non più fondata sulla vecchia organizzazione dell’unità africana (Oua) scaturita dalla decolonizzazione, ma basata sul modello integrazionista dell’Ue.

Tale è il sostrato culturale degli attuali leader africani. Tuttavia la percezioni delle giovani generazioni è del tutto diversa ed è mutata radicalmente. Ne sta emergendo un continente più diversificato, non solo economicamente ma anche politicamente e culturalmente. Una volta le élite africane credevano nei sogni comuni, oggi prevale un’aspettativa di prosperità individuale e competitiva.

Sta emergendo un ceto medio africano certamente più istruito e culturalmente globalizzato ma anche più disinteressato al futuro comune. L’Africa si presenta come il continente del “paradosso economico” che la contraddistingue fin dall’entrata nel nuovo millennio: forte crescita e sottosviluppo assieme; tradizione e individualismo. Come altrove, aumentano i benestanti ma la forchetta tra ricchi e poveri si allarga e le diseguaglianze divengono più visibili.

I popoli africani sono sottoposti a tensioni fortissime che li rendono vere e proprie polveriere sociali: l’arrivo copioso di investimenti (dall’Asia ma non solo) ha aumentato la massa di denaro e di ricchezza in circolazione. Molti ne hanno approfittato ma ancor più numerosi ancora sono quelli che dalle zone rurali si riversano in città e cercano disperatamente di goderne i benefici.

Spinta migratoria

L’alternativa è la spinta migratoria che ormai appartiene alla cultura quotidiana del giovane africano. Prima migravano coloro che erano designati dagli anziani; oggi i giovani si muovono autonomamente e decidono di partire contro il parere degli adulti. Per questo è così difficile ottenere un accordo da parte delle elite dirigenti: c’è uno scollamento totale di linguaggio e sentimenti tra generazioni (e per questo anche piacciono i militari giovani che tolgono il potere alle gerontocrazie).

La velocità delle regole del mercato che inducono una mentalità competitiva all’eccesso, non concede tempo alle fragili istituzioni pubbliche – comprese quelle nello stadio di iniziale di democrazia- di inseguire tali impetuosi mutamenti con politiche sociali adeguate.

Ciò ingenera fenomeni sconosciuti in Africa fino a pochi anni fa che rendono la vita più dura, come l’abbandono degli anziani in zona urbana che avviene con caratteristiche tutte africane, come l’utilizzo dell’accusa di stregoneria per emarginare gli anziani o i bambini di strada.

Si rompe la relazione tra generazioni: la famiglia africana tradizionale sparisce dalle grandi città ed è sostituita da una forma locale di famiglia nucleare, caratterizzata da rapporti sociali brutali (in particolare per ragazze e donne).

Il 40% circa dei nuclei familiari africani è diretto da donne sole e non c’è più posto per i vecchi, una volta al centro della vita sociale. Anche verso i poveri e gli indifesi, dove prima c’era sopportazione scoppia ora l’intolleranza con manifestazioni violente.

Giustificata dal “bisogno di sicurezza”, spesso con un linguaggio del tutto simile a quello utilizzato in Europa, l’emarginazione degli ultimi diviene possibile. Non è venuto meno lo Stato autoritario africano –come emerge dai ripetuti golpe militari di questi ultimi anni- ma si è indebolita la struttura familiare o clanica tradizionale che offriva forme di protezione alternative, ampliando così lo spazio del caos individualistico in società fragili, con istituzioni di welfare inesistenti.

Si tratta di fenomeni che l’Europa conosce per averli vissuti ma con un ritmo meno galoppante e in maniera meno dirompente grazie alle reti di protezione (si pensi solo alle pensioni). Sono i risvolti sociali del nostro tempo, le conseguenze dell’infiacchimento del tessuto collettivo, il prodotto della globalizzazione privatizzatrice e dell’iperliberismo.

Da una parte l’Europa si chiude nel timore delle migrazioni che vengono descritte come forme di invasione; dall’altra l’Africa tumultuosamente si trasforma e spinge i suoi giovani a partire, talvolta li caccia. La domanda da porsi è: è possibile immaginare un’unità di intenti –politica e sociale- per costruire un futuro comune di convivenza?

Guardare ad Europa e Africa come ad un nuovo viaggio comune, dopo quello triste della colonizzazione e quello incompleto della decolonizzazione, ci potrà forse far uscire dallo spirito di declinismo strisciante che vige in Europa ma anche dalle avventure violente che attanagliano l’Africa, come le guerre civili o il jihadismo.

Non si tratta di percorrere vecchie nostalgie post-coloniali o nuove avventure paternalistiche. È una questione di scelte e volontà politiche, una decisione di cooperazione paritaria – eurafricana o afroeuropea –fondata su una mentalità comune meno spaventata e da scelte di relazione politica meno egoistiche.
 

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