Gli orizzonti sociali e politici dei secoli Diciannovesimo e Ventesimo affollavano i seggi elettorali nel gioco delle speranze e delle paure contrapposte. Per contro, e non da oggi, i partiti vivacchiano sul filo d’interessi raccogliticci e contingenti. E parrebbe morta ogni possibilità d’appello a qualche sorta di “interesse generale”. Ogni tanto ci si prova (come avvenne per i beni comuni, come è implicito e divisivo sul tema dei diritti, come accade nella ricerca di percorsi mentali, culturali e politici che sfuggano al destino della guerra).
E qualcosa del genere pare possa prender corpo a valle dello European Media Freedom Act, che è reso forte dal carico di “interesse generale” anche, o forse grazie al fatto di apparire concretissimo poiché prende le mosse da palpabili motivi di convenienza industriale e commerciale.
Perché il regolamento europeo
Cinquecento miliardi emigrano annualmente dalle tasche europee a quelle d’oltre Atlantico in cambio dei servizi (ricerca, social, streaming) forniti da Google, Amazon, Meta e compagnia. Questi giganti talvolta sono in combutta, talaltra si urtano tra loro, ma dilagano comunque sul filo del telefono con cui scavalcano le frontiere, e trattano l’Europa come un unico, gigantesco e profittevole mercato, senza ombra di giganti locali che lo presidino con i suoi proventi.
Infatti le imprese mediali europee sono piccine, ristrette nella dimensione nazionale delle concessioni televisive e radiofoniche che ne hanno tenuto a battesimo le fortune invidiabili per la durata di qualche decennio. Mentre oggi quelle fortune sono più che dimezzate e per di più precarie perché pubblicità e acquisti degli spettatori sono risucchiati dalla rete.
Internet ha messo in crisi sia le imprese che il loro rapporto coi rispettivi governi statali, che tanto hanno contato per la floridezza dei bilanci perché le regole Stato per Stato sono divenute un cappio al collo a cui il regolamento Ue apporta un taglio. Per piallare le differenze e creare condizioni eguali, basiche e sicure di commercio e di lavoro. Nella speranza di un riequilibrio delle bilance economiche, ma anche sociali e culturali, rispetto, essenzialmente, a Usa e Gran Bretagna.
L’approccio economico del regolamento va tenuto da conto sia perché dona un connotato di concretezza a tutta la faccenda, sia perché le strategie economiche rientrano in pieno nei compiti di Bruxelles e possono essere decise a maggioranza per forzare il passo ove occorra. In nome dei vantaggi possibili grazie a un “mercato comune”.
È in questi casi che la sovranità nazionale si fa da parte e lascia il posto all’esercizio della sovranità condivisa, a costo di votare a maggioranza. Sicché l’Ungheria ha votato contro, eppure il regolamento se lo tiene perché questa è la regola del gioco.
Negli stati
Se è pacifico che il regolamento è nato forte, resta da vedere cosa accade quando atterra negli ordinamenti giuridici degli stati membri. Di certo ci saranno scintille su un paio di questioni, entrambe da sistemare entro la scadenza dell’8 agosto 2025. La prima (art. 6) è in grado di infiammare gli uditori perché sancisce il divieto di indagini, sequestri, ispezioni, svelamento forzato delle fonti a spesa ed eventuali pene di chi produce informazione.
La norma europea è autosufficiente, e alla data limite ogni editore, giornalista, intrattenitore o narratore è automaticamente in grado di goderne, perfino in Ungheria. Il fine perseguito è quello della qualità del prodotto mediale europeo rispetto, in particolare, alla concorrenza anglo-americana, che è tuttora in grado di dare lezioni nel campo della libertà d’espressione come origine di forza e di sviluppo.
Rai da rifondare subito
La seconda questione (art. 5) riguarda i servizi pubblici: dall’8 agosto 2025 il regolamento vuole che siano indipendenti «in senso funzionale ed editoriale» e che dispongano di risorse sicure, al riparo da ricatti e adeguate alla “missione” che lo Stato definisce e finanzia concedendola a un’impresa pubblica appositamente dedicata. Il fine della indipendenza e della conseguente responsabilizzazione in proprio dei vertici aziendali è che l’impresa statale viene allontanata dalla tentazione di creare effetti distorsivi nel mercato come clientele, protezionismi e roba simile.
In questo caso la norma è chiara, ma non basta a sé stessa, e richiede la messa in atto di provvedimenti attuativi. Nel caso della Rai si tratta, come minimo, di collocare il potere proprietario (che oggi appartiene al ministero dell’Economia) in un gruppo di donne e uomini designati a incarnarlo. Chi nominerà costoro? La politica ovviamente, ma in modi e tempi che li mettano al riparo dalle intrusioni delle stesse istituzioni politiche che li avranno nominati (non è un gioco di parole: è possibile e accade). Con il che alla lottizzazione subentra la indipendenza e la responsabilità d’impresa proprio nell’azienda che della lottizzazione è impregnata fino al midollo.
Ce n’è d’avanzo per prendere atto che alla Rai servirà una sorta di rifondazione, con la prevedibile comparsa sia di resistenze frontali sia di un qualche «cambiare tutto per non cambiare niente».
Un caso esemplare
E proprio qui rispunta dalle rovine di Otto e Novecento l’occasione di un movimento basato su un “interesse generale”.
Che si ravvisa non tanto nell’evitare procedure di infrazione, ma nell’aiutare – altro che resistervi per ragioni di cortile – le prospettive europee (e dunque anche italiane) di sviluppo delle industrie e dei posti di lavoro all’interno della forza propulsiva di un mercato unico continentale per le industrie che creano, producono e distribuiscono contenuti.
A prima vista l’obiettivo di suscitare un movimento pare impervio. Per il fragore distraente delle polemiche correnti sulla Rai. Perché gli stessi anziani la considerano una fonte d’offerte in mezzo a tante. Mentre ai giovani adulti, ai giovani e agli adolescenti, cresciuti fra smartphone e piattaforme, se gli chiedi di viale Mazzini e del Cavallo si smarriscono o ti prendono per matto.
Invece è sorprendente quel che vediamo accadere quando chiunque ponga mente al dilemma Rai lottizzata vs Rai indipendente e colga in un istante che la cosa lo riguarda, che la posta è molto alta, che il regolamento ha aperto la partita e che l’esito sarà decisivo per le attese proprie e ancor di più per le speranze di nipoti e figli.
La speranza, che comincia a divenire una certezza, è che si possa sottrarre la faccenda alla congiura del silenzio. Dopo di che il gioco è fatto perché nessuno, neanche il lottizzatore più incallito, metterebbe la faccia a sostenere che la Rai è utile solo se prosegue come entità “dipendente e ricattabile”. Tanto più in prossimità della scadenza della concessione statale che ne motiva l’esistenza con tanto di finanziamento da parte del contribuente.
Questa ci sembra la situazione ai blocchi di partenza dell’anno abbondante che si pone fra l’oggi e l’agosto 2025.
C’è tutto il tempo necessario perché allo slancio politico-intuitivo dell’inizio si aggiunga la cognizione di alcuni temi di fondo: il ruolo irrinunciabile e strategico di un’impresa pubblica che (sul modello di base della Bbc) funga da pietra angolare e pivot dell’intero comparto produttivo nazionale per spingerlo ai livelli più alti del mercato globale; quanto serva, nell’esplosione gassosa della fakeria via social, un nucleo di professionismo pagato per essere serio, imparziale, plurale e completo (citando l’articolo quinto) quando informa, quale che sia il linguaggio con cui svolge la missione; per non dire della necessità di sviluppare la presenza nazionale e il prestigio nel news streaming internazionale, dove brilliamo da sempre per l’assenza.
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