Il ragazzo ha lasciato la Tunisia a dieci anni per venire in Italia. Dieci anni dopo si è tolto la vita nel carcere di Sollicciano, il 4 luglio scorso. La madre lo ha scoperto dai social. I famigliari hanno accolto la salma rientrata a Tunisi e aspettano gli esami per capire cosa sia accaduto
Il volo di linea che collega Roma a Tunisi è in perfetto orario. Sono le 13 e 30 di mercoledì 31 luglio e la temperatura dell’aria è rovente. Tuttavia per la famiglia Ben Sassi è fondamentale attendere sotto il sole l’arrivo di Fedi, di rientro in Tunisia dopo dieci anni di lontananza. Mentre i passeggeri si recano ai controlli di frontiera, le due sorelle di Fedi, la zia, la nonna e una decina di familiari lo aspettano a qualche centinaio di metri di distanza, di fronte alla sezione dedicata alle merci. Un’area isolata dal resto della confusione tipica di un aeroporto.
Per quasi un’ora il silenzio regna sovrano. Poi nel giro di pochi istanti un camion scarica un carrello con una bara all’interno dell’area protetta e i famigliari di Fedi si avvicinano al cancello cercando di intuire se possa essere il loro caro.
Da Sollicciano a Tunisi
«Me lo hanno riportato come se fosse una valigia», è l’urlo di disperazione della nonna Henda Mateli alla vista della salma del nipote, morto suicida nel carcere di Sollicciano a Firenze lo scorso 4 luglio. Le grida di dolore durano diversi minuti prima che il corpo di Fedi venga trasportato in un ospedale della capitale per l’autopsia e gli accertamenti del caso. Minuti che sono sembrate ore con il primo abbraccio arrivato dopo dieci anni solamente attraverso una bara di legno.
Vent’anni compiuti da poco e originario di Tunisi, in Italia Fedi Ben Sassi è una delle 65 persone che da inizio 2024 si è tolto la vita nelle carceri del paese. L’ultimo suicidio è avvenuto nella serata del 7 agosto nell’istituto penitenziario di Prato, anche lui era un cittadino tunisino (aveva 35 anni).
In Tunisia Fedi Ben Sassi è un figlio partito all’età di dieci anni «per fare contenta la mamma e non vederla più lavorare». Oggi, a casa della famiglia Ben Sassi nella periferia est di Tunisi, quello che resta del ragazzo è un murale fatto da un giovane del quartiere dopo la notizia della morte. Restano anche i ricordi di un bambino che fin da piccolo si divertiva ad andare al porto de La Goulette insieme agli amici e immaginare di saltare su una delle navi in direzione dell’Italia.
«All’epoca vivevamo vicini al mare in un hammam abbandonato perché non ci potevamo permettere una casa», è il racconto della madre, Yosra Ben Sassi. Occhi costantemente rigati dalle lacrime, per quattro giorni dal rimpatrio di suo figlio al giorno del funerale, Yosra ha condiviso il suo lutto collettivamente, insieme alle figlie e a sua sorella, alla nonna di Fedi e a tutta la cerchia allargata di parenti e amici. Un rituale lungo e doloroso in una casa popolare al piano terra che la famiglia è riuscita a ottenere dopo anni di fatiche e lavori saltuari, fatta di poche stanze da condividere per tante persone.
«Fedi è morto di povertà», sono le parole della nonna Henda raccolte da Domani. Dal suo racconto si può dedurre che si tratti di una doppia povertà. Una è quella più evidente e si trova in Tunisia. Cresciuto senza il padre, di cui si sono perse le tracce pochi anni dopo la sua nascita, Fedi aveva un fratello e due sorelle. È diventato grande in una famiglia dove i soldi scarseggiano, così come le opportunità di lavoro in un paese che da decenni soffre di un’importante crisi economica e sociale. «È dovuto diventare grande troppo presto. Nonostante tutte le difficoltà che abbiamo vissuto è sempre rimasto un bambino sorridente e pieno di vita», continua a raccontare Henda Mateli.
Un’infanzia trascorsa a guardare sua mamma e la nonna passare da un lavoro all’altro in cerca di uno spiraglio di stabilità mai arrivato. Fedi ha trascorso metà della sua vita nel piccolo Stato nordafricano e metà in Italia. Un viaggio reso possibile grazie a un salto all’interno di un camion di olio e alla traversata in uno dei numerosi traghetti che collegano Palermo e Tunisi. Era il più grande di quattro fratelli. Uno è Seif, anche lui in Italia da qualche anno che oggi vive in una comunità a Firenze. Le due sorelle sono le più piccole e i ricordi di Fedi piano piano sono sbiaditi con il passare del tempo.
Tasnime ha 16 anni e qualcosa se lo ricorda ancora. Quando parla di suo fratello, gli occhi brillano e le lacrime spariscono: «Mi ricordo che andava sempre dai vicini a cercare del cibo. Prima chiedeva qualche panino per sé e poi con calma convinceva le persone a farsi dare qualcos’altro anche per noi. Faceva sempre così e tornava con qualche baguette e le uova sotto il braccio», racconta la sorella.
Anche lei, prima insieme ai fratelli e poi con gli amici, è andata spesso al porto di Tunisi: «Mi è capitato di aiutare i miei amici ad attraversare le barriere ma non ho mai avuto il coraggio di farlo anche io. Oggi rimpiango di non averci provato».
La seconda povertà per cui è morto è più istituzionale e riguarda l’Italia, in particolare le sue carceri. Fedi si trovava nella prigione di Sollicciano per alcuni reati commessi da minorenne e un furto avvenuto quando aveva poco più di 18 anni.
Una vita in Italia che gli ha presentato un conto durissimo, lontano dai suoi affetti e da un’integrazione che spesso risulta complicata. Ciononostante in carcere era riuscito a ottenere un diploma di cucina. Era qualcosa di cui andava fiero e la mamma Yosra ancora oggi mostra le foto che conserva gelosamente nel telefono di suo figlio con un cappello da chef in testa e le dita a fare il segno di vittoria.
Da Sollicciano sarebbe dovuto uscire nel maggio del 2025 ma tutto sembra precipitato dopo una chiamata mancata con la famiglia e una detenzione in carcere diventata insopportabile dopo numerose violenze subite all’interno dell’istituto: «Una persona straniera che arriva in Italia conosce difficoltà e ostacoli nel rapporto con gli altri. Questo è moltiplicato per dieci e per cento all'interno del carcere che è un universo separato.
Ci sono leggi e convenzioni che sono difficili da conoscere e da mettere in atto, sono problemi che per uno straniero diventano insuperabili», è il commento di Luigi Manconi, sociologo dei fenomeni politici.
L’avviso via social
I familiari hanno saputo della morte di Fedi attraverso i social network, come racconta Majdi Karbai, ex deputato tunisino e punto di riferimento per la comunità nordafricana presente in Italia: «Nessuno in Tunisia si è occupato di avvisare la famiglia, io sono venuto a sapere dell’accaduto perché sono in contatto con diverse associazioni che lavorano nelle carceri e nei centri per il rimpatrio. Non è la prima volta che succede e in generale ricevo tante segnalazioni di tunisini in situazioni di difficoltà. L’ultima è stata per il caso di tortura all’interno del carcere minorile di Milano».
Prima di tornare a casa per il funerale e la sepoltura, il corpo di Fedi è rimasto tre giorni a disposizione delle autorità tunisine per l’autopsia. Per la famiglia Ben Sassi credere alla tesi del suicidio è difficile. La mamma Yosra, così come gli altri familiari, sostengono che Fedi abbia altre ferite sul corpo ed è impossibile che un ragazzo come lui abbia potuto commettere un gesto del genere.
In attesa di conoscere i risultati degli esami per capire se possano dare un esito diverso rispetto a quelli effettuati in Italia, lo scorso sabato Fedi è stato salutato per l’ultima volta.
Un lungo corteo da quella casa che non è mai riuscito a vedere fino al cimitero del quartiere Le Kram, a pochi passi dal porto de La Goulette dove dieci anni fa, intrufolatosi quasi per gioco in una cisterna d’olio, era partito per cercare un futuro migliore per sé e la sua famiglia.
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