Quando in Italia qualcuno dice “filippina” molto probabilmente sta parlando di una domestica, pur essendo uno dei gruppi di prima immigrazione nel nostro paese, gli abitanti dell’arcipelago asiatico continuano in maggioranza a fare quel mestiere. La ragione è da ricercare in un percorso migratorio sui generis che è tale dagli anni ’70 in poi.

Nella provincia di Bulacan, a nord di Manila, incontriamo Raimunda e Dolores, che hanno vissuto 40 anni in Italia e non sono a casa qui e neppure a Roma e Milano, dove lavorano. La loro è una vita di quel che nelle Filippine si chiama comunemente “sacrificio”, ovvero partire per far stare bene la famiglia e aiutare il paese.

La loro storia è di relativo successo: hanno comprato ciascuna una grande casa e mantenuto tanta gente. A differenza di tante storie di emigrazione, quella dalle Filippine è fatta di risparmio per mantenere gruppi familiari allargati e non per investire e superare la propria condizione di partenza.

Nella grande casa di queste due donne prossime alla pensione nessuno ha studiato o avviato un’attività: il nipote fa l’autista grazie a un Suv comprato con i risparmi della nonna. Non si tratta di un caso isolato e la ragione sta nel tipo di lavoro delle e degli emigranti: lavoro in casa spesso in regime di convivenza e lavoro in mare, due forme diverse di isolamento che rendono difficile mescolarsi con la società di accoglienza.

Nel 2021 il 60 per cento delle persone emigrate era donna, tra queste il 65 per cento lavorava in lavori di cura, pulizia, cucine mentre tra gli uomini più della metà era marinaio, cameriere di crociera, macchinista, pescatore.

Scuola di sottomissione

Fin dagli anni della dittatura di Ferdinand Marcos, padre dell’attuale presidente, Ferdinand junior, detto “bongbong”, il governo promuove l’emigrazione e con le rimesse in valuta pregiata paga il servizio del debito estero ed evita di preoccuparsi di disoccupazione, lavoro informale e povero, disuguaglianze.

Nella retorica governativa gli emigranti sono «eroi dei nostri tempi» celebrati con video patinati in televisione. A formare per le professioni per migranti c’è una rete di scuole professionali, le Tesda, dove si studia da infermiere, meccanico e, più che ogni altra cosa, da personale domestico. Ogni anno si insegna a circa 20mila persone che vengono dagli slum della capitale o da villaggi rurali a usare una lavatrice automatica o un forno a gas.

La rete Tesda è enorme e visibile, ovunque nelle Filippine si vedono appesi striscioni pubblicitari che invitano a iscriversi ai corsi Tesda per garantirsi un futuro. Nelle scuole professionali si imparano anche le buone maniere: «Quando ho seguito il corso mi hanno anche detto di essere pronta a essere sgridata, a subire le urla e a essere rapida a immaginare cosa serve ai padroni.

È una cultura diversa e dobbiamo accettare certe cose. Ma ci hanno anche detto quali diritti abbiamo, ad esempio se ci viene chiesto di lavorare per parenti dei datori di lavoro, possiamo rifiutarci», ci racconta Jennelyn nella sua casa persa tra le risaie a Nord di Manila dove il marito fa il bracciante e lei fa la lavandaia o altri lavori di servizio che le capitano. Jennelyn ha una figlia che vorrebbe far studiare e nonostante abbia una cinquantina d’anni ha deciso di partire per la Penisola araba.

Inferno Arabia

Ma davvero ci si può rifiutare di lavorare per i parenti o segnalare che si sta lavorando più del dovuto? Le storie di migranti donne a servizio in Kuwait, Oman, Arabia Saudita raccontano il contrario: spesso capitano violenze, molestie e gli orari di lavoro sono dall’alba fino a quando i padroni non vanno a dormire per stipendi che non sono quelli che sarebbe lecito immaginare in paesi il cui tenore di vita è tale da consentire di comprare a peso d’oro calciatori e allenatori della Nazionale.

«So che quelli non sono buoni posti per emigrare, ma andare in Europa o negli Usa costa troppo, per la Penisola araba le agenzie non chiedono di essere pagate, anticipano i costi di visti, visite mediche e passaporto», spiega ancora Jennalyn, che aggiunge di non poter più tornare indietro perché  in quel caso l’agenzia chiederebbe di pagare quanto investito.

È per i costi bassi e per la domanda di domestiche che nel 2021 il 49,5 per cento dei lavoratori filippini all’estero era impiegato nella Penisola araba. Quando visitiamo il centro nazionale della Tesda l’insegnante ci mostra la rapidità con la quale due donne fanno un letto d’albergo senza una piega nelle lenzuola, «diamo loro trenta secondi per farlo».

La grande sala nell’enorme centro Tesda per la formazione prevede letti, elettrodomestici, cucina e preparazione dei pasti. «Ci hanno dato un menu e detto di prepararlo in 30 minuti senza poter chiedere nulla, dobbiamo abituarci» ci aveva raccontato Jennalyn.

Sacrificio

Rosanna Urdaneta, vicedirettore per il policy planning di Tesda (dopo aver voluto le domande in anticipo e leggendo le risposte su un gobbo che i suoi assistenti le hanno preparato) sostiene che «preferiremmo che le persone rimanessero qui, ma i filippini sono avventurosi, gli piace esplorare posti».

È la versione ufficiale: spirito di avventura, eroismo e voglia di aiutare gli altri. Negli slum di Manila e nei villaggi a Nord della capitale abbiamo incontrato precarietà e miseria, condizioni igieniche disperate. Figli, mogli, mariti, zie, nonni che aspettano l’arrivo del Balykbayan, la scatola dei regali che gli emigranti spediscono regolarmente a casa e dei soldi delle rimesse.

Nuclei familiari allargati che convivono in una baracca o in una casetta ringraziando la persona o le persone che hanno fatto il sacrificio. Se si escludono Corea del Nord e Myanmar, che hanno una storia ancora più complicata, le Filippine sono il paese del sud est asiatico più arretrato.

Mentre negli anni Novanta si parlava di Tigri asiatiche, l’arcipelago e la sua politica rimanevano relativamente fermi. Una storia di colonizzazione brutale spagnola, l’occupazione americana e oggi il ruolo strategico dal punto di vista geografico consentono alla classe dirigente di non preoccuparsi troppo.

Se durante gli anni terribili della presidenza Duterte, quando poliziotti e squadre di sicari facevano migliaia di morti tra i diseredati per portare avanti la “guerra alla droga”, il populismo ultra conservatore del presidente faceva notizia, oggi che al potere ci sono di nuovi i Marcos – e la figlia di Duterte è vicepresidente – non è più così. Che cosa è cambiato? La politica estera.

Negli anni di Trump Duterte aveva operato una serie di strappi e si era avvicinato alla Cina. Oggi, con Pechino che rivendica con sempre maggior insistenza zone del Mar Cinese Meridionale, “bongbong” Marcos è tornato a flirtare con gli Usa, che apriranno nuove basi nel paese.

Il disordine mondiale di questi anni ha consentito di mettere da parte la retorica occidentale dei diritti umani, oggi si parla con tutti e non si critica nessuno. Del resto la competizione è con Pechino, la cui parola d’ordine in politica estera è niente ingerenza negli affari interni.

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