Il nuovo presidente dell’Argentina è il capofila del laboratorio sudamericano della “ultraderecha” globale, guidata idealmente da Donald Trump. Ma la sua reale collocazione politica è tutta da verificare. In lui convivono diverse anime e nella coalizione che lo ha portato alla vittoria ha avuto un ruolo decisivo la destra tradizionale di Macri, che chiederà una contropartita
Si è molto scritto e detto a proposito della vittoria di Javier Milei, che si insedia domenica 10 dicembre come presidente dell’Argentina. Principalmente per tre motivi.
In parte, ciò si deve all’immagine che ha proiettato di sé durante la campagna elettorale, ovvero quella di una personalità fuori dagli schemi, controcorrente, antipolitica, “anarchica”.
In parte, tale interesse è scaturito dai suoi numerosi, contraddittori e, in qualche caso, impraticabili proclami: dalla “dollarizzazione” dell’economia all’abolizione della Banca centrale, dalla drastica riduzione dei ministeri alla privatizzazione di sanità e istruzione, dalla vendita delle principali aziende di stato alla liberalizzazione della vendita delle armi da fuoco, fino ad arrivare ai diritti civili e alle questioni sociali.
In quest’ultimo ambito, peraltro, Milei ha sostenuto, esattamente come in campo economico, l’idea di uno stato che “deve farsi gli affari suoi” e che, quindi, non deve mettere in discussione il matrimonio omosessuale o il diritto all’autodeterminazione rispetto all’identità di genere, né addirittura deve impedire la libera vendita di organi, ma che è chiamato ad opporsi sempre e comunque all’aborto.
Tuttavia, forse quello che più ha suscitato la curiosità, o la preoccupazione, a livello internazionale è il terzo motivo: la presunta appartenenza di Milei al raggruppamento dei politici di estrema destra che crescono ovunque.
Attualmente sarebbe proprio la regione latinoamericana a rappresentare il laboratorio di eccellenza dell’“ultraderecha” mondiale, per via della presenza e della potenziale crescita di formazioni e leader in molte nazioni. Ultraderecha che ha stretto rapporti con formazioni analoghe in altre aree del pianeta, a cominciare dagli Stati Uniti di Trump, indiscussa guida della “rete globale”.
Le incertezze
La collocazione politica di Milei è tutta da verificare. La sua gestione dipenderà da vari fattori legati alle dinamiche politiche argentine e dalla possibilità che venga spazzata via la spessa coltre di indeterminatezza che tuttora avvolge il futuro presidente. Bisognerà, infatti, valutare la contropartita che chiederanno le forze politiche minori che lo sosterranno in parlamento, dove il suo partito non ha la maggioranza.
Ma anche la reale portata dell’ipoteca sulla sua azione di governo, derivante dall’intesa siglata con l’ex presidente Mauricio Macri e le principali personalità del macrismo. In tal senso, è sufficiente ricordare il sostegno, decisivo, ricevuto al secondo turno dalla candidata conservatrice Patricia Bullrich e il fatto che molti esponenti a vario titolo collegati a Macri faranno parte della squadra di governo.
Molto scaturirà dalle scelte che farà durante il suo mandato. Insomma, dovrà prima emergere il vero volto che Milei mostrerà al popolo argentino e al mondo intero. Sarà quello del populista di (estrema) destra, del “fascista” del XXI secolo, che, come spesso accade, si nasconde dietro la retorica del presidente anti-casta e anti-sistema?
Oppure assumerà le sembianze di un capo di stato neoconservatore, fermo su alcuni capisaldi dottrinali ma, al tempo stesso, serio e pragmatico? Sul piano più squisitamente economico-sociale, poi, confermerà di voler seguire un impianto ultraliberista, smantellando tutto ciò che si può del welfare e dei sussidi sociali, oppure bilancerà il mercato e il contrasto alla povertà? Temi, questi ultimi, tutt’altro che secondari in un paese letteralmente devastato dall’inflazione.
In attesa che Milei sveli la sua vera natura e chiarisca condotta e azione di governo, alcune indicazioni si intravedono già. Innanzitutto, c’è da aspettarsi che Milei metterà in soffitta talune delle proposte più discutibili del suo programma in ambito economico e sociale, a cominciare dalla dollarizzazione, che la gran parte degli analisti economici mondiali reputa irrealizzabile.
E questo in particolare per non perdere consenso tra ceto medio impoverito e frange più bisognose dell’elettorato argentino, per non distanziarsi oltremisura dalla linea del “rigore senza eccessi” del macrismo e per guadagnare il sostegno, fondamentale, in parlamento, dei partiti non collocabili perfettamente nel perimetro della destra.
Meno movimentista
C’è da attendersi, pure, che lavorerà molto sulla sua immagine pubblica, optando, magari, per uno stile meno movimentista e “rockettaro” e più consono a quello di presidente di uno dei colossi – sebbene in crisi – del subcontinente.
I passi compiuti subito dopo la vittoria vanno in questa direzione. In primo luogo, i colloqui con l’amministrazione uscente per garantire una transizione senza scossoni hanno mostrato un presidente in pectore più lucido e moderato.
Poi, stante l’assenza di una propria classe dirigente a livello nazionale, l’intesa politica con Macri e Bullrich svela che Milei è ben consapevole di non poter essere eccessivamente “radicale”, alimentando ulteriormente il caos e strumentalizzando le paure di una popolazione già esausta.
Indicativo, in tal senso, è anche il viaggio, compiuto a fine mese scorso, negli Stati Uniti, dove ha incontrato il consigliere per la Sicurezza nazionale e alcuni funzionari dell’Fmi con i quali (ri)discutere i termini del gravoso prestito contratto nel 2018.
Il volto che vedremo
L’Argentina di Milei potrebbe chiudere definitivamente la stagione del kirchnerismo e allinearsi agli Stati Uniti, ridimensionando i rapporti con la Cina, suo attuale principale socio commerciale e investitore straniero. Buenos Aires dovrebbe, poi, fare marcia indietro rispetto all’adesione ai Brics.
Più in generale, stanti i suoi pessimi rapporti con alcuni degli attuali presidenti di sinistra dell’area, Milei dovrebbe se non isolare il paese sul piano regionale quantomeno spingere l’Argentina ad essere meno coinvolta negli affari subcontinentali. Questo, ovviamente, in attesa di “tempi migliori”, cioè dell’avvento al potere di nuovi interlocutori ideologicamente affini con i quali poter creare un vero asse dell’“ultraderecha”.
Il pensiero corre al vicino Cile, dove il leader di estrema destra José Antonio Kast ha, al momento, ottime chance di successo alle elezioni del 2025. E va, soprattutto, alle presidenziali statunitensi. Un nuovo mandato di Trump potrebbe rappresentare un volano per la creazione di un asse continentale, con effetti deflagranti anche a livello mondiale.
Ad oggi, tuttavia, le incognite sono ancora tante. Bisognerà attendere quale volto del Milei “bifronte” prevarrà: quello visto all’opera nella corsa al potere o quello che, presumibilmente, conosceremo quando sarà chiamato a gestirlo. Solo allora sapremo cosa ne sarà, almeno nell’immediato futuro, della martoriata Argentina.
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